“Calma piatta”. Così ci si sente rispondere dai più autorevoli
economisti quando si chiede un commento sull’andamento del nostro Paese nei primi mesi del 2011. Ma quel che più preoccupa è che il tono peggiora se si scende nello specifico del settore alimentare: è vero che l’indice di produzione industriale dello scorso aprile è di 3,7 punti sopra quello dell’aprile 2010, ma – avverte Francesco Daveri su www.lavoce.info – oltre al fatto “di rimanere pur sempre di 17 punti percentuali inferiore al dato registrato pre-crisi nell’aprile 2008, è significativo che a non decollare sia soprattutto la produzione di beni di consumo non durevole che, nell’aprile 2011, mostra un modesto +0,2% rispetto all’aprile 2010, mentre il resto delle voci industriali mostra incrementi di 6 punti percentuali. È lo scontrino medio delle famiglie che vanno a fare la spesa al supermercato a rimanere troppo basso, non le vendite di prodotti hi-tech”. Lo ha confermato, tra gli altri, Coldiretti lo scorso maggio, denunciando una riduzione media degli acquisti familiari del 4% nel primo trimestre del 2011 (-9% per la spesa di frutta e -5% per quella di carne). E lo ha ribadito Federconsumatori, secondo cui negli ultimi tre anni si è registrata una caduta dei consumi del 6,5% con una contrazione della domanda pari a circa 51 miliardi di euro. Ma a far la voce più grossa, in questo cahier de doléance, è la grande distribuzione che, ben lungi dall’aver digerito la chiusura del 2010 con un segno meno (-1,7% per la rete moderna, -0,6% quella corrente) non perde occasione per additare al Governo e all’opinione pubblica la via maestra per ridare ossigeno al mercato. La formula magica per uscire, almeno in minima parte, dalla calma piatta che sta paralizzando l’economia italiana, si riassume in una sola parola: liberalizzazioni, un tema al quale abbiamo dedicato l’inchiesta di copertina di questo mese. Non c’è convegno, meeting, confronto pubblico in cui Vincenzo Tassinari, presidente del consiglio di gestione di Coop Italia, non ricordi come una seria politica di liberalizzazione dei mercati (distribuzione alimentare e non, carburanti, farmaci, banche e assicurazioni) rimetterebbe nelle tasche dei consumatori oltre 23 miliardi di euro, una cifra pari all’1,4% del Pil, che corrisponde al 2,5% dei consumi delle famiglie. Lo ha ricordato anche nella recente convention del gruppo Sigma, lo scorso luglio, sottolineando come, tra l’altro, questo ridarebbe fiato agli operatori di un comparto, quello distributivo, che ha svolto e continua a svolgere un ruolo importante di calmieramento dei prezzi: secondo una recente indagine Bocconi che rileva l’inflazione dal 2003 al 2010, l’incremento medio Istat è stato del 14% (con punte del 24% nei servizi) mentre in gdo è stato solo del 5 per cento. Aggiungiamo come nostra riflessione il fatto che, oltretutto, gli operatori della distribuzione che andrebbero a gestire i servizi che si vogliono liberalizzare sono anche quelli in cui i consumatori ripongono, in questo difficile momento di mercato, una maggiore fiducia. A rilevarlo, questa volta, è un’indagine commissionata da Burson-Marsteller su un campione di oltre 3mila persone di 14 Paesi europei. La fiducia nella grande distribuzione (64%) è addirittura più alta di quella che i consumatori ripongono nei media (38%), nel governo centrale (24%), nei capi religiosi (24%) e nei politici (13%). E a livello di macrocategorie la fiducia verso il comparto alimentare (63%) e delle bevande (57%) è molto più elevata di quella riservata, per esempio, al settore finanziario (29%) ed energetico (40%). Insomma, nuovi servizi in mano ai retailer incontrerebbero sicuramente il favore dei consumatori che, oltre a risparmiare, avrebbero un’ulteriore occasione per rivolgersi a chi si fidano di più. La ricerca di Burson-Marsteller, però, evidenzia in controluce un altro interessante indicatore: “La fiducia nel mercato – si legge nel rapporto – varia enormemente e dipende da una combinazione di fattori, soprattutto l’origine dell’azienda e la sua dimensione. Le persone ripongono fiducia per lo più nelle imprese locali, un po’ meno in quelle nazionali, meno di tutte in quelle internazionali. È emersa una propensione a interagire con piccole imprese ben identificate piuttosto che con multinazionali anonime di cui non si fidano. Analogamente, i consumatori hanno maggiore fiducia nel personale con cui hanno un contatto diretto”. Stiamo parlando quindi di una fiducia subordinata a una ‘presa diretta’ sull’azienda, a un controllo locale che, tradotto in gergo distributivo, si chiama ‘prossimità’. “I consumatori si fidano del mercato locale, che ben conoscono, e del contatto diretto – conferma la ricerca -. E i risultati sono simili in tutta Europa. Questo dimostra che le aziende devono ricostruire la propria reputazione e cambiare il modo in cui comunicano”. Una lezione che, mutatis mutandis, deve valere anche per le industrie di marca. In che modo? Rispondo con un piccolo ma geniale esempio che arriva da Barilla: il nuovo negozio mobile lanciato da Mulino Bianco. Si chiama ‘SottoCasa’ ed è un punto vendita ‘on the wheel’ che ricorda il tradizionale negozio di prossimità per vendere pane e frutta. Con questo concept Mulino Bianco ha visitato a luglio 12 città italiane e proseguirà fino a ottobre, toccando le principali province del Centro-Nord. Si potranno acquistare pane e frutta, ma anche panini e piadelle appena preparati, anche quando i negozi tradizionali sono chiusi. Una bella lezione di proximity marketing. E una conferma che anche chi è grande, oggi, non dimentica di pensare ‘in piccolo’.
Maria Cristina Alfieri
Per un mercato libero. E locale
© Riproduzione riservata