Il caso è passato quasi del tutto inosservato, complice il periodo infelice in cui si è guadagnato qualche spazio sui quotidiani. Erano i primi giorni di agosto quando ha fatto il giro del mondo la notizia di cinque finti Apple Store e una falsa Ikea scoperti a Kunming, la capitale internazionale della contraffazione. In entrambi i casi la ricostruzione degli store era assolutamente identica all’originale, con tanto di grande mela illuminata in vetrina e tavoli per la prova prodotto nel caso di Apple, e colori gialli e blu, grandi aree espositive e servizio di montaggio mobili a pagamento per Ikea. “Travolto dal boom della domanda il commercio illegale dell’Asia si riorganizza – ha spiegato su la Repubblica il corrispondente Giampaolo Visetti –: non servono più beni contraffatti a basso costo, ma punti vendita più convenienti di quelli veri, capaci di offrire merce autentica in abbondanza e un servizio clienti gratuito e più efficiente (…). La Cina scopre così che il ‘come vendi’ inizia a contare di più del ‘cosa vendi’ (…) e nell’ultimo anno sono stati scoperti falsi concessionari di auto, catene di centri commerciali e sei McDonald’s finti che servivano gli hamburger di fast food autentici”.
Il ‘come vendi’ conta più del ‘cosa vendi’: la bruciante lezione che arriva da Oriente accende i riflettori sul ruolo di assoluto rilievo che i retailer stanno assumendo sui mercati internazionali. L’insegna è sempre più garanzia di qualità e servizio, tanto da diventare un’imprescindibile estensione dei valori della marca che, di conseguenza, può esprimere appieno tutto il suo spessore solo se proposta all’interno di un contenitore di pregio. Tra le mille riflessioni che questa case history può suscitare, ci piace sottolinearne un paio, a nostro avviso molto stimolanti per industria e distribuzione. La prima è che, guardata da un’angolazione un po’ diversa, la notizia che arriva dal Far East lascia presagire una futura selezione naturale dei retailer sulla base di chi saprà offrire ai suoi clienti i servizi migliori e avrà ai loro occhi un’identità più forte. Se il ‘come vendi’ diventa essenziale, non ci sarà più spazio – o ce ne sarà molto meno – per operatori che fanno della leva prezzo la loro unica arma attrattiva. Questo non significa abdicare sul fronte della convenienza, semmai rinnovare, personalizzandola, anche la politica del basso prezzo. Non è un caso che alla presentazione del tradizionale Rapporto Coop su consumi e distribuzione, Vincenzo Tassinari, presidente del comitato di gestione del gruppo, abbia proprio presentato come strategia focale della cooperativa un ripensamento della leva promozionale. “In momenti di crisi come questa – ha spiegato – non si può non proporre al consumatore un’offerta di convenienza, ma la sfida di Coop è quella di studiare un sistema di promozioni più diretto e tagliato a misura di consumatore”. Come dire, la migliore risposta a un consumatore economicamente in difficoltà non è il 3×2 indifferenziato che può trovare ovunque, ma l’offerta su misura, il servizio, l’attenzione. In due parole il ‘come vendi’. E tutto questo investire e lavorare sull’identità e la forza dell’insegna torna – è la nostra seconda riflessione – anche a vantaggio dell’industria di marca che investe davvero su innovazione e qualità, perché nel ‘come vendi’ e nel concetto di servizio è assolutamente centrale quell’offerta ad alto valore aggiunto che i grandi brand sanno e possono offrire. La selezione naturale dei contenitori porta con sé quella dei contenuti e la maggiore sensibilità del consumatore globale al servizio e alla qualità è tutto sommato una buona notizia sia per chi vende, sia per chi produce, facendo dell’eccellenza il centro del suo business. La morale della ‘favola’ è quasi banale, però fa bene ogni tanto ripeterla, correndo pure il rischio di farla diventare un ritornello monotono. Sia la congiuntura economica che lo stesso consumatore imporrebbero una nuova stagione di collaborazione tra industria e distribuzione, per il bene del Paese e dei consumatori. L’ha ricordato lo stesso Tassinari, rispolverando per l’ennesima volta i ‘nuovi’ modelli negoziali elaborati da Indicod Ecr e rimasti nel cassetto per anni. La colpa? I produttori la imputano allo scollamento tra le ‘buone intenzioni’ dei vertici della distribuzione e l’operato concreto dei buyer, che sul campo adotterebbero parametri ben diversi da quelli orientati alla creazione di valore. I distributori puntano l’indice contro i produttori, che non farebbero la loro parte nel tutelare a sufficienza il consumatore in questo momento di difficoltà. E la giostra riparte sempre allo stesso modo, mentre tutto il mondo intorno cambia. Adesso che stiamo perdendo anche la certezza del prossimo giro, varrebbe davvero la pena provare a far ripartire la giostra in modo diverso. Maria Cristina Alfieri
Un altro giro di giostra?
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