Possiamo concederci il lusso di aprire il 2012 con una riflessione positiva? È vero che per l’eurozona il rischio recessione è dietro l’angolo, legato a filo doppio a una crescita rallentata dai processi di risanamento fiscale. È vero che, stando all’ultimo rapporto Censis, nella prima parte del 2011 soltanto il 28,2% delle famiglie italiane è stato in grado di mettere da parte una quota del proprio reddito mensile, il 53% è andato in pari tra quanto speso e quanto guadagnato e il 18,8% non è riuscito a coprire per intero le necessità di consumo. È vero che a settembre è addirittura calato del 2,2% l’acquisto di cibo e bevande (dato Istat su base annua) e che lo shopping di Natale è calato del 19% (dato Confesercenti). È vero anche che Confindustria prevede per quest’anno una diminuzione dei consumi dell’1 per cento. Però c’è un dato, almeno uno, che legittima a guardare con un residuo di ottimismo un anno in cui difficilmente potremo spendere la parola crescita, ormai attesa dagli analisti non prima del 2013. Il dato si chiama export. Emergeva con forza dall’analisi dei bilanci di Mediobanca, ai quali abbiamo dedicato la copertina dello scorso numero di Food. Ed è stato recentemente confermato da un intervento di Gregorio De Felice, responsabile servizio studi e ricerche di IntesaSanPaolo, durante il tradizionale incontro di fine anno del Consorzio Italia del Gusto. “A fronte di un peggioramento della domanda interna – ha spiegato De Felice – la crescita è affidata soprattutto alle esportazioni che, secondo l’Istat, sono cresciute del 10,3% nei primi nove mesi dell’anno. Una dinamica che si ripresenterà anche negli anni a venire”. Dinamismo che va a braccetto con quello registrato dai prodotti più innovativi e con maggiore contenuto di servizio: l’ortofrutta di IV e V gamma, i piatti pronti e surgelati, i prodotti salutistici, quelli sostenibili (sia sul fronte sociale che ambientale) e, ça va sans dire, la fascia premium. Illuminante, a questo proposito, un grafico mostrato da De Felice nel quale si evidenzia l’effetto dell’innovazione sull’evoluzione del fatturato e dell’ebitda: nel 2008/09 le imprese che hanno fatto innovazione (misurata in brevetti) hanno messo a segno un +3% di fatturato e un +6% di ebitda in più rispetto alle imprese che non hanno innovato. “Attenzione però – avverte De Felice – : per crescere, internazionalizzarsi, fare ricerca e innovazione occorre avere una struttura finanziaria
più solida, anche nel settore alimentare: queste strategie richiedono ‘spalle più grandi’ e la via per ottenerle è un aumento della patrimonializzazione”.
E a proposito di ‘spalle larghe’ si riapre il solito capitolo sulla dimensione delle aziende italiane, che oggi diventa particolarmente urgente anche nell’ottica di giocare un ruolo più attivo nel mercato delle fusioni e acquisizioni all’interno del settore alimentare italiano, che vede i nostri operatori più come prede che come predatori, oggetto di sempre maggiore attenzione da parte dei grandi gruppi e dei fondi di private equity. Attirati dalle opportunità d’investimento di un comparto che esprime ancora un valore importante (l’Italia è il Paese europeo con il maggior numero di prodotti agroalimentari di qualità con denominazione protetta: 219, il 22,1% di tutti quelli riconosciuti in ambito comunitario), gli operatori internazionali stanno facendo shopping dei migliori marchi del nostro made in Italy. A sentire i dati snocciolati da Andrea Mayr, responsabile investment banking di Banca Imi, sembra quasi di leggere un bollettino di guerra: “Le poche grandi operazioni di m&a del settore alimentare hanno visto protagoniste le aziende estere: solo nel 2011 Parmalat, Fiorucci e Gancia sono state acquisite rispettivamente da Lactalis, Campofrio e Russian Standard; Findus è stata acquisita nel 2010 da Birds Eye (Permira); Bertolli nel 2008 da Sos; Galbani e Star nel 2006 rispettivamente da Lactalis e Agrolimen; Mellin e Carapelli nel 2005 da Numico e Sos… Non c’è quindi da stupirsi che il saldo tra operazioni effettuate da società estere in Italia e quelle di società italiane all’estero sia negativo e che al di fuori di Campari, Lavazza, Segafredo, Perfetti Van Melle, Illva Saronno e Autogrill, nessuno possa dirsi davvero attivo su questo fronte”. Ancora una volta, non consolidare con un ampliamento della massa critica la crescita che le nostre imprese registrano all’estero dipende da quelle ‘spalle strette’ che denunciava De Felice e che rischiano a questo punto di diventare fatali per il nostro Sistema Paese. Che fare? Quattro ricette, piuttosto ‘strong’, ma molto interessanti, arrivano proprio da Banca Imi. Le facciamo nostre e ve le riproponiamo come spunto di riflessione e, perché no?, di buon auspicio per l’anno che ci aspetta. La prima è fare un salto culturale, iniziando a pensare ai mercati esteri con la stessa strategicità di quello domestico, attirando nuovi talenti manageriali, cambiando il modello di governance e favorendo la crescita di una cultura amministrativo-finanziaria a partire da un audit esterno e da una definizione strutturata dei propri piani di sviluppo. La seconda è ‘accettare’ che il possesso del 100% del capitale possa essere un limite alla crescita: di conseguenza, coniugare l’apertura del capitale con una visione di lungo periodo, tipica delle imprese familiari; diversificare le fonti di finanziamento, riequilibrare il rapporto debito/equity e posizione finanziaria netta/ebitda. Il terzo è fare sistema con un rapporto di partnership di lungo periodo tra banche e imprese, valutando l’opportunità di costituire un fondo di equity specializzato sul settore alimentare. Il quarto, pensare alle m&a superando i campanilismi locali, sia tra imprese private sia tra aziende a matrice cooperativistica. Buona riflessione e buon lavoro. Maria Cristina Alfieri
Quattro propositi per l’anno nuovo
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