La rete cinese

La rete cinese

Ormai l’abbiamo ripetuto molte volte: in un momento in cui la domanda interna è in grave difficoltà, andare all’estero diventa per le imprese alimentari italiane quasi una scelta obbligata per crescere. Se poi il mercato estero verso il quale si punta è quello cinese, le opportunità di fare business sono – in questo particolare momento storico – più favorevoli del solito. Con questo messaggio di fondo lo scorso giugno si è tenuta presso la Fiera di Parma una due-giorni organizzata dal Consorzio Italia del Gusto con la consulenza di Gea, finalizzata a illustrare alle imprese di marca quali fossero gli strumenti, le strategie, le competenze necessarie per affrontare al meglio questo mercato.
Le ‘lezioni’ uscite da questo China Business Incubator sono state molte, ma vorrei sottolinearne un paio perché aprono il campo a riflessioni di più ampio respiro sul ‘modo italiano’ di approcciare nuovi mercati. Intanto partiamo dalla congiuntura particolarmente favorevole alle importazioni dall’estero che sta connotando la Cina in questo momento. È stato ribadito che oggi i nostri prodotti hanno grandi prospettive non solo perché se ne apprezza la qualità, come in tutto il mondo, ma anche e soprattutto perché se ne apprezza la sicurezza. Dopo gli scandali del latte alla melamina, della pasta adulterata e della carne contaminata che hanno tanto spaventato i consumatori, il Governo cinese ha deciso che la sicurezza alimentare doveva diventare una priorità per lo sviluppo del suo comparto agroalimentare nei prossimi anni e vede ovviamente nel nostro modo di produrre, quindi nel nostro ingresso sul suo mercato – non solo di merci, ma anche di stabilimenti produttivi – una garanzia di sicurezza che va assecondata e implementata. Non solo. In aggiunta a queste considerazioni di ordine più commerciale, ci sono anche motivazioni politico-strategiche favorevoli al nostro ingresso: nell’ultimo piano quinquennale del consiglio di stato cinese, infatti, si è stabilito di ribilanciare la crescita economica a favore dei consumi interni (le importazioni di beni e servizi dovranno crescere ogni anno del 17,3%) e, in particolare, si indica proprio il settore agroalimentare come un comparto in cui favorire gli investimenti esteri. Ne ha dato, tra l’altro, prova concreta lo scorso giugno quando, con la garanzia di Sace, la China Merchants Bank ha presentato un piano per favorire l’accesso al credito delle imprese italiane interessate a operare in Cina, mettendo a disposizione 2 miliardi di renminbi (ossia 258,75 milioni di euro), di cui 1 miliardo riservato alle pmi. Prima riflessione: quanto di tutto questo sapevano e sanno i produttori italiani? A parte le pagine del nostro giornale – che lo scorso marzo ha dedicato a questi argomenti l’inchiesta di copertina (vedi Food 3/2012, pag. 28-49) – quale circolazione d’informazioni c’è stata? E ancora: chi sa che per affrontare un mercato complesso come quello cinese non è necessario avere delle risorse finanziarie enormi, ma è sufficiente farsi accompagnare dai partner giusti? La due-giorni di Parma, in effetti, nasceva proprio con lo scopo di colmare questo gap di informazioni, riunendo intorno a un tavolo tutti i partner di cui un’impresa, anche di piccole dimensioni, potrebbe aver bisogno per sbarcare nell’impero celeste. Non a caso erano presenti i rappresentanti di Ice, Simest, Sace, che hanno dichiarato di aver ormai rodato una ‘cabina di regia’ capace di accompagnare le imprese all’estero, svolgendo finalmente quella funzione di ‘rete’ che è sempre mancata al nostro sistema Paese.
E qui veniamo alla seconda riflessione. Gli stranieri che hanno avuto finora più successo in Cina sono stati i francesi, che hanno puntato su due leve: organizzarsi in mega-consorzi sul modello di Sopexa e mandare avanti le loro catene distributive da Carrefour a Auchan. Noi non abbiamo né una cosa né l’altra: esiste allora un’Italian way all’ingresso sui mercati più promettenti, alternativa a quella francese, ma in grado di garantirci lo stesso successo che hanno riscosso i cugini europei? La soluzione sembra proprio quella rappresentata ‘in carne e ossa’ da Italia del Gusto, il primo consorzio privato di aziende italiane di marca, che ha come mission quella di aiutare le aziende consorziate a migliorare la loro posizione competitiva sui mercati internazionali. Detto in sintesi, il futuro è nella rete. E anche su questo i cinesi hanno molto da insegnarci. A spiegarlo in termini più ‘filosofici’ e suggestivi ci ha pensato, nella due-giorni di Parma, Francesco Boggio Ferraris, responsabile della scuola di formazione permanente della Fondazione Italia Cina, professore di cinese e profondo conoscitore della cultura orientale. “Ci sono alcuni aspetti della psicologia e della cultura cinese che determinano molto la struttura delle relazioni commerciali in questo Paese – ha ricordato Boggio Ferraris –. Uno di questi è la necessità di tessere continuamente reti di relazioni orizzontali. L’imprenditore cinese ha l’obbligo – non il diritto – di chiedere aiuto quando gestisce un’impresa. Un cinese che non chiede aiuti alla sua rete di riferimento commette una sorta di suicidio sociale. Chiede aiuto perché ha la certezza di essere corrisposto e di poterlo dare a sua volta in caso di necessità”.
Doppio insegnamento: l’esempio cinese ci conferma che mettersi in rete è vincente e ci suggerisce che uno dei nodi di queste grandi reti, in futuro, potremmo essere anche noi.
Maria Cristina Alfieri

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