Mentre rileggevo il peggior Rapporto Coop di sempre sulla crisi dei consumi italiani, che dipinge – cifre alla mano – un Paese di cittadini infelici e sfiduciati – orfani persino di quella capacità di risparmio che fino a ieri sventolavano con vanto in faccia ai cugini europei – mi tornava in mente una domanda che qualche tempo fa Giuseppe De Rita del Censis aveva lanciato in pasto agli ospiti dell’ennesimo affollato convegno sulle strategie per la ripresa: ma chi l’ha detto che dobbiamo ricominciare a consumare come facevamo fino a ieri? Non può essere che l’abbiamo già fatto abbastanza e adesso vogliamo altro? O qualcosa di diverso?
Una provocazione, certamente. Che non può e non vuole togliere nulla alla complessità e difficoltà del momento che stiamo vivendo. Ma che ha il pregio di aprire un varco alla riflessione verso un tema troppo spesso adombrato dal tracollo delle vendite: che cosa i consumatori vogliono (e possono) consumare davvero.
Siamo sicuri che liquidare l’identikit del consumatore-tipo ai tempi della crisi con l’etichetta di “più critico, più attento agli sprechi, più selettivo” sia sufficiente? Siamo sicuri di conoscerlo davvero bene il nostro target? Il sospetto che una falla di marketing divida qualche piccola responsabilità con l’infausta contingenza economica che stiamo vivendo è insieme legittimo e intrigante. E ci ha spinti ad andare più a fondo. Il risultato? Un’inchiesta di copertina nella quale illustriamo una rivoluzione epocale che abbiamo la sensazione sia sfuggita a molti operatori. E che riguarda, appunto, l’identità dei consumatori contemporanei.
Tutti concordano su quanto il mondo digitale abbia cambiato le loro abitudini di spesa. E non c’è azienda che per dialogare con loro non li abbia ingaggiati sul web o sui social network. Ma una volta stabilito il contatto, quello che gli si chiede è ancora il sesso, l’età, la provenienza geografica. Li si raggiunge sui nuovi media per incasellarli in vecchi schemi, le classiche categorie sociodemografiche, (che poi orientano le campagne di comunicazione). Peccato però che la web revolution le abbia silenziosamente spazzate via.
A ricordarcelo, in un vibrante discorso su www.ted.com che avevamo già citato più di un anno fa, è Johanna Blakley, direttore della ricerca al Norman Lear Center (University of Southern California). “Le società credono ancora che se rientri in certe categorie demografiche le tue scelte siano prevedibili – spiega la Blakley -. Ma è sbagliato. Quando si osserva la gente che si ritrova online, si nota che le persone non si aggregano per età, sesso o provenienza geografica, ma si aggregano intorno alle cose che amano. E la condivisione d’interessi e valori è di gran lunga un aggregatore più potente che le categorie demografiche. M’interessa di più sapere se un film ti è piaciuto che non quanti anni hai, perché questo mi dice di te cose più sostanziali”. Insomma che io sia giovane o vecchio, uomo o donna, indiano o americano conta fin lì. Quel che conta oggi è che musica ascolto, quali programmi televisivi seguo, che giornali leggo. Conta quali marchi mi piacciono. Quali battaglie sociali sto facendo. Che gusti ho. Quante aziende l’hanno capito?
Capirlo significa lanciare un prodotto (e la conseguente campagna pubblicitaria) che non è più indirizzato, per esempio, alle donne quarantenni italiane, ma che è pensato per chi ama un certo stile di vita, a vent’anni come a sessanta. Non a caso un colosso come Nielsen, che ha fatto dell’analisi del consumatore la sua ragione di vita (e di business) in tutto il mondo, ha messo a punto un innovativo sistema di analisi che segmenta i target proprio a partire dalle loro abitudini e dai loro gusti. Che li intercetta sulle tv, li segue sui social, dove s’incontrano abitualmente 23,7 milioni di italiani o li incrocia sul web dove 13,8 milioni di utenti passano in media 1 ora e 26 minuti al giorno (fonte Nielsen). Gli strumenti, quindi, ci sono. Ma quanti li utilizzano? La domanda ovviamente non è rivolta solo alle imprese italiane. Una volta tanto condividiamo l’ipotesi d’inadeguatezza con le migliori company del mondo.
Ne è prova il fatto che il grido dall’allarme della ricercatrice americana ha recentemente trovato sponda in Gran Bretagna, dove un’indagine condotta da Webtrends su un campione di 100 imprese inglesi ha messo in luce un dato inquietante: più del 90% delle aziende utilizza strumenti di social media marketing, ma solo il 14% monitora i risultati.
“Si tratta di un dato allarmante – ha dichiarato costernato il general manager Emea della società – poiché la misurazione è parte fondamentale della strategia di marketing: perché preoccuparsi di avere una presenza online se poi non si monitora quanto si dice sul web? Poter disporre di dati concreti che mostrano come i consumatori interagiscono online consente al marketing di prendere decisioni più oculate”.
La risposta la sappiamo già. Si frequenta il web, ma poi, quando si fa sul serio, si usano le vecchie care griglie del sesso e dell’età. Chissà che per rimettere in moto i consumi non si possa proprio ripartire da qui.
Maria Cristina Alfieri
E se sbagliassimo i target?
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