Che l’export sia una delle poche vie di fuga che restano all’industria alimentare italiana per far fronte al calo dei consumi interni, l’abbiamo ribadito spesso. A sottolinearlo è il ritmo incalzante dei dati Istat sul commercio al dettaglio che, a ogni nuova scadenza, non fanno che peggiorare. L’ultimo aggiornamento, di fine settembre, mostra che a luglio il tonfo ha raggiunto il -3,2% rispetto all’anno prima, con un dato negativo sia per la gdo (-2,3%) sia per i piccoli dettaglianti (-3,8%). Per la prima volta hanno trovato un segno meno davanti ai loro dati di vendita anche discount e supermercati, ultimi baluardi del mass market che ancora potevano vantare qualche dato positivo. E invece. Anche loro messi a tappeto da una crisi che è riuscita a far calare anche i consumi alimentari dello 0,3%, dato che, epurato dall’inflazione, corrisponde a una diminuzione delle quantità vendute dell’11,6% (fonte Federdistribuzione).
Se vogliamo riprendere ossigeno con qualche segno più, dobbiamo voltare lo sguardo altrove, verso i mercati esteri che, invece, stanno regalando ai nostri produttori importanti soddisfazioni. Nello stesso mese di luglio, tanto infelice per il mercato domestico, si è celebrato sul fronte export l’avanzo record della nostra bilancia commerciale: +4,5 miliardi di euro, il miglior risultato dal 1998. E in questa partita il comparto food ha giocato un ruolo fondamentale conquistando un +11,2 per cento. Da questi dati incoraggianti ha preso le mosse, lo scorso mese, il convegno promosso dal nostro magazine e da IntesaSanpaolo, proprio per capire come cogliere i frutti di questo trend favorevole. Senza entrare nel merito delle tante suggestioni emerse, che sono oggetto della nostra inchiesta di copertina, vorrei aggiungere due semplici riflessioni a margine.
La prima è legata alla sensazione che i nostri operatori non abbiano ancora colto del tutto le potenzialità che il made in Italy sa e può esprimere oltreconfine. Nonostante Federalimentare abbia recentemente ribadito che le esportazioni italiane nei soli Paesi emergenti potrebbero crescere di quasi 500 milioni di euro, arrivando a 2 miliardi nel 2017, la nostra capacità di guadagnare quote all’estero è inferiore, per esempio, a quella dei tedeschi, che magari non hanno una varietà di assortimento pari alla nostra. Non si spiegherebbe altrimenti quel dato eclatante, che si è giustamente conquistato la prima pagina del Corriere della Sera, secondo il quale la Germania porta all’estero il 27,5% della sua produzione agroalimentare, mentre noi ci fermiamo al 19 per cento. Se riuscissimo a colmare questo gap, ha provocatoriamente notato Gregorio De Felice, chief economist di Intesa Sanpaolo, significherebbe per noi portare a casa almeno altri 10 miliardi di euro. Vista l’entità della posta in gioco, la seconda riflessione riguarda le strategie per aggiudicarsi quest’altra fetta di una torta, che ormai sta facendo gola a tutti gli operatori internazionali. La dritta emersa dal convegno parte dalla ricetta di sempre – ossia: fare più network – ma con una variante importante: anziché limitarsi a elencare i limiti del nostro sistema Paese e a lamentare la mancanza di sostegno istituzionale che tutti vorrebbero più forte, i player italiani hanno incominciato a capire che i primi a muoversi, per fare rete, devono essere loro. Per citare solo alcune delle idee emerse durante la convention, quella di creare all’estero distretti del food dove una grande multinazionale faccia da capofila all’ingresso di operatori più piccoli, magari di segmenti di mercato diversi, o quella di varare dei progetti di ‘tutoraggio imprenditoriale’, dove un big player possa portare all’estero con sé un’impresa più piccola, ma in grado di esprimere una nicchia di alta qualità, sinergica con i suoi prodotti. Senza dimenticare l’ipotesi di stringere alleanze extrasettoriali che uniscano, per esempio, l’eccellenza del food a quella della moda o del design. Insomma l’alibi di non avere alle spalle la Sopexa della situazione o catene distributive forti come Carrefour, sembra essere arrivato al capolinea. Anche perché Carrefour non distribuisce solo prodotti francesi e lo spazio che riserva ai tedeschi è comunque superiore a quello che abbiamo noi. Si è digerito che abbiamo dei limiti, ma si è anche capito che vanno superati insieme, per non perdere treni che rischiano di non passare più. La tanto decantata creatività italiana adesso va applicata alla costruzione di tante reti, efficaci e snelle, che ci facciano arrivare sui nuovi mercati in modo più compatto e strutturato. Lo ha ben spiegato Edoardo Segantini sulle pagine del Corriere della Sera qualche giorno fa, sottolineando come oggi si sia straordinariamente allargato il perimetro di ciò che chiamiamo ‘innovazione’. Non è solo lo studio che si fa in laboratorio, ma “la capacità di inventare nuovi modelli di business. Di creare nuovi tipi di marketing, di finanza, di logistica. Di realizzare modelli cooperativi, oltre che competitivi tra le aziende. (…) L’idea stessa di innovazione sta cambiando. Non è una forza, ma un campo di forze. Non è una singola invenzione, ancorché frutto di genio, ma una piattaforma su cui molti elementi trovano posto e si combinano secondo la chimica di una nuova formula”. Insomma il nuovo prodotto della nostra inventiva dev’essere un network che funziona. Che cosa manca ai nostri imprenditori per realizzarlo? Maria Cristina Alfieri
Tutti insieme, per l’export
© Riproduzione riservata