Gli scandali alimentari dei giorni scorsi hanno riportato prepotentemente il tema alla ribalta. I consumatori devono poter disporre di strumenti sempre più certi e sofisticati per controllare l’origine e i diversi anelli di filiera di ciò che comprano e portano in tavola. Una recente novità, che si profila come una possibile soluzione al problema, è quella presentata qualche settimana fa da Gs1 – l’associazione che implementa il sistema di codifica dei prodotti più diffuso nel settore del largo consumo a livello mondiale – che trasforma il codice a barre dei prodotti in un archivio digitale per raccogliere informazioni sulla loro origine e qualità. L’idea è quella di formare una banca dati online di tutti i prodotti in commercio, con le informazioni fornite direttamente dai produttori, che possa essere accessibile tramite un’app inquadrando con il cellulare il codice a barre di ogni referenza quando si fa la spesa. Il valore aggiunto del progetto è anche la sua possibile declinazione internazionale, visto che gli standard Gs1 sono applicati in 110 Paesi e le informazioni fornite dai nostri produttori saranno fruibili dai consumatori di tutto il mondo, trasformandosi in un’arma in più contro l’Italian sounding. L’app, tra l’altro, può diventare un nuovo strumento per ingaggiare un dialogo con i propri consumatori rendendo sempre più ricca e coinvolgente la loro esperienza d’acquisto. E qui vale la pena fermarsi per sottolineare un’interessante riflessione fatta in conferenza stampa da Edmondo Lucchi, responsabile dipartimento new media di Eurisko. La tentazione di riempire di informazioni i consumatori può rivelarsi infatti un’arma a doppio taglio. “Guardatevi dalla tentazione di offrire ai vostri clienti nozioni e basta – ha ammonito Lucchi – Non si porta mai in tavola la farina da sola. Prima la si impasta con acqua, uova e burro, la si cuoce e se ne fa una torta. Allora è pronta per essere servita”. Fuor di metafora culinaria, l’invito è a ‘condire’ i dati sui propri prodotti con la proposta di fare ‘esperienze’ legate al cibo ben più profonde e articolate che una mera acquisizione di informazioni sulla filiera. Insomma, produrre informazioni oggi è una commodity: dall’industria di marca ci si aspetta di più. Da qui la provocazione di Paolo Iabichino, direttore creativo di OgilvyOne: “La vera innovazione non ha nulla a che fare con la tecnologia. È un nuovo atteggiamento nei confronti delle persone. Che passa anche attraverso la tecnologia, ma è prima di tutto una nuova sensibilità”. Sottovalutare questo cambio culturale può essere fatale: sono lì a dimostrarlo i tanti casi di impeccabili operazioni digitali che hanno avuto risultati disastrosi. La tecnologia, in questa fase, è vincente quando riesce a offrire ai consumatori un’esperienza empatica disinteressata. Rifacendosi alle teorie di Brian Fetherstonhaugh, carismatico ceo mondiale di OgilvyOne, Iabichino ha esortato a riflettere su come si possa continuare a fare profitto senza che il profitto sia l’unica cosa che abbiamo in testa.
Detto di questi tempi suona quasi come una bestemmia, eppure Fetherstonhaugh l’ha più volte sperimentato sul campo. “I mercati sono conversazione”, ha chiosato in una delle sue folgoranti sintesi: è vincente chi li affronta per dialogare e non per vendere. Va da sé poi che chi riesce a dialogare venda anche di più. Lo dimostra, numeri alla mano, la bella case history di Timberland, che Iabichino ha seguito personalmente in Italia. L’azienda, nota per il suo impegno sul fronte della tutela ambientale, partiva dall’esigenza di movimentare il passaggio di persone nei suoi punti di vendita. La soluzione è stata la messa a punto di un’app, chiamata ‘Mr Tree’, che piantava nello smartphone un seme digitale: dal seme cresceva un albero che però iniziava presto a perdere le foglie e doveva essere portato in salvo in uno dei negozi Timberland localizzabile tramite la stessa applicazione. Chi portava nello store il suo albero, prima che fosse caduta l’ultima foglia, aveva la promessa che Timberland avrebbe piantato un albero vero al quale sarebbe stato dato il suo nome. Per farglielo sentire ancora più ‘suo’ l’azienda forniva al consumatore anche le coordinate geografiche dell’albero, in modo da poterlo andare a visionare anche di persona. L’operazione, secondo i dettami di Fetherstonhaugh, non aveva alcun risvolto commerciale. I clienti potevano scaricare l’app, entrare in negozio, veder piantato un albero a loro nome, senza comprare nulla. Il risultato? Un incremento nei volumi di vendita del 20%. In tempo di crisi. Vale davvero la pena farci una riflessione sopra. Maria Cristina Alfieri
Informare non basta
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