Ancora piacevolmente stupiti dalla coraggiosa proposta del premier Letta di far salire il contributo dell’industria al Pil italiano dal 18 al 20%, economisti e manager hanno subito avviato un dibattito per capire come sia possibile centrare questo obiettivo. Tra le risposte più ricorrenti, quella di favorire una crescita dimensionale delle nostre imprese per metterle in grado di competere sui mercati esteri che tanto apprezzano il made in Italy. Gli occhi, ancora una volta, si sono indirizzati tutti oltreconfine, verso quei Paesi dove i consumi crescono a ritmi serrati e le opportunità per chi ha un brand consolidato sono davvero notevoli. Senza smorzare gli entusiasmi, vogliamo però far nostro un monito emerso dal Cibus Global Forum dello scorso maggio, un evento organizzato da Federalimentare e Fiere di Parma in collaborazione con Gruppo Food: malgrado i progressi dell’export (nei primi sei mesi dell’anno le esportazioni alimentari sono cresciute del 12% rispetto al 4/5% dell’export nel suo complesso) sui mercati emergenti guadagniamo fette di mercato molto più piccole rispetto alle nostre potenzialità e, soprattutto, rispetto a Paesi che hanno un patrimonio enogastronomico molto meno significativo del nostro. Perché questo gap? Ancora una volta una risposta è arrivata dalla duegiorni del Cibus, per bocca di Guido Pellegrini (Università La Sapienza) e Giovanni Ferri (Lumsa): la grande frammentazione della nostra industria alimentare – la dimensione media della imprese è la metà di quella europea – ci ha consentito da un lato di valorizzare le infinite tradizioni produttive diffuse sul territorio, ma dall’altro ha ridotto la capacità di competere adeguatamente sui mercati globali perché implica ridotti investimenti in ricerca e sviluppo, poca disponibilità finanziaria, limitate capacità manageriali. Per non parlare del fatto che, oltre a essere piccole, le nostre imprese hanno anche alle spalle, ciascuna, una storia imprenditoriale forte e dei prodotti unici: questa è stata sicuramente la carta che ha costruito il successo del made in Italy del mondo. Ma oggi questo vantaggio rischia di diventare un limite, nel momento in cui bisogna lavorare alla costruzione di network e reti d’impresa nelle quali l’individualismo dei singoli deve sacrificare qualcosa alla causa di unire le forze per competere, dimensionalmente più robusti, sui mercati internazionali. Mai come oggi servirebbe un cambio culturale e di vision per affrontare al meglio le nuove sfide che la crisi impone. Molto interessante, a questo proposito, è un recente studio realizzato da Korn/Ferry International, la più grande società mondiale nel settore dell’executive search, su un campione di 109 business leader europei. Interrogati su quali fossero, secondo loro, le doti necessarie ai manager di oggi per riavviare e sostenere la crescita delle loro imprese soprattutto sui mercati internazionali, la maggioranza del campione ha risposto che serve “una leadership più visionaria, guidata sì da competenze ed esperienza, ma anche più flessibile e adattabile ai rapidi cambiamenti, più coraggiosa e strategica rispetto a quanto potesse esserlo nel periodo pre-crisi finanziaria”. Insomma, alla classe dirigente si chiede il coraggio di fare scelte audaci, soprattutto a livello organizzativo, sperimentando nuovi modi di fare business. Sviluppare sinergie tra imprese fino a ieri competitor, nell’ottica di rinforzare il made in Italy all’estero, potrebbe essere uno di questi modi. Come anche spingere con più coraggio l’acceleratore su ricerca e sviluppo per partorire innovazioni che siano più sostanziali. Se infatti Ferri e Pellegrini ci hanno ricordato che la percentuale di imprese alimentari che innovano è intorno al 40,5%, hanno anche sottolineato come la quota di fatturato sviluppata dalle innovazioni food è ancora poco rilevante rispetto a quella realizzata, per esempio, dal settore dell’arredo e del tessile. Come dire: l’innovazione si fa, ma è poco rilevante. Anche perché ci si investe poco: l’Italia, rispetto a Usa, Regno Unito, Germania e Francia, è di gran lunga il Paese che spende meno per fare ricerca nel settore alimentare. Anche qui, servono audacia e vision. Serve seguire l’efficace aforisma che un imprenditore illuminato come Pietro Barilla aveva coniato tanti anni fa e che oggi dà il titolo alla sua biografia: “tutto è fatto per il futuro, andate avanti con coraggio”. Maria Cristina Alfieri
Per ripartire? Serve coraggio e vision
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