La gioiosa macchina da bollicine si è rotta? La domanda sorge spontanea se si osservano da vicino le ultime vicende del gruppo Coca-Cola (The Coca-Cola Company). Ieri la società ha annunciato che licenzierà su scala mondiale tra 1.600 e 1.800 dipendenti. In totale Coke ne ha circa 130mila e la cifra non sarebbe così esagerata (l’1,5% della forza lavoro complessiva) se non fosse che a memoria non si ricorda un’operazione di snellimento di quest’entità. Ma il business ha smesso di crescere, soprattutto in Nord e Sud America e bisogna intervenire sui costi. Questo è quel che dicono i vertici della società, sottolineando i problemi di mercato delle bevande gassate, una categoria che sempre più fatica a sviluppare vendite, almeno negli Usa dove l’azienda mantiene il suo core business. La dieta di personale, stando alle dichiarazioni, aiuterà a tagliare i costi globalmente di tre miliardi di dollari nei prossimi cinque anni.
Ma forse nell’annuncio di questa ristrutturazione del personale, condito da frasi quali “Non abbiamo preso questa decisione alla leggera” o “Assicureremo un trattamento congruo a chi verrà toccato dai tagli”, c’è dell’altro. Per comprendere meglio quel che sta succedendo bisogna andare a ritroso di qualche mese, quando in discussione a livello apicale non c’erano i tagli o le revisioni di budget ma i compensi per i vertici di gruppo, che sarebbero migliorati sensibilmente secondo alcune interpretazioni. Benefit che avevano fatto gridare allo scandalo perfino Warren Buffett, storico primo azionista della società attraverso la Berkshire Hathaway, il quale in modo del tutto inatteso era uscito allo scoperto per manifestare la sua contrarietà. “Mel (Maria Elena Lagomasino, a capo del comitato per le remunerazioni del cda di Coca-Cola, ndr) ha prodotto un piano ‘esagerato’ nell’assegnazione di cash ai dirigenti”, piuttosto che di azioni legate ai risultati aveva detto Buffett e quando si era trattato di esprimere un parere definitivo, aveva chiaramente preso le distanze: “Non siamo d’accordo con questo piano. Pensiamo che sia eccessivo e che segni un reale cambiamento rispetto a quelli precedenti”.
Alle dichiarazioni del cosiddetto “oracolo di Omaha” erano seguiti a dicembre 2014 i calcoli di Wintergreen Advisers, società di consulenza che assiste alcuni azionisti di Coca-Cola in questa battaglia contro lo strapotere dell’amministratore delegato Muntar Kent e degli altri dirigenti. Wintergreen in uno studio aveva fatto notare che il nuovo piano di remunerazione potrebbe costare alla società da uno a tre miliardi di dollari l’anno. Cifra senza giustificazione perché a fronte di un azzeramento della crescita dei profitti negli ultimi due anni, le stock option e stock grant concesse ai dirigenti erano già cresciute esponenzialmente. Non solo: le acquisizioni di Coca Cola Enterprises (imbottigliatore nordamericano) e Glaceau (marchio Vitaminwater), per un totale di 16,3 miliardi di dollari, avevano avuto un basso tasso di ritorno sul capitale investito, e dubbi vi erano anche sul timing di entrata in Monster (energy drink) e Green Mountain (caffè, di cui è azionista anche Lavazza), operazioni concluse solo per inseguire due categorie dove la società era rimasta indietro. Insomma, per dirla con gli analisti della società, “Kent aveva distrutto valore per gli azionisti” lungi che generarlo. Non solo: si chiedeva anche uno svecchiamento degli amministratori, uno dei quali – James Robinson III – siede da 40 anni ininterrotti, mentre la media di tutti i consiglieri è di 11 anni. Un problema perché un rinnovo del consiglio apporterebbe idee ed energie nuove che adesso stenterebbero.
Secondo Wintergreen Coke può migliorare sensibilmente il 28% di ebitda su fatturato che ha attualmente, ma ci vuole una revisione del business.
Alla luce di tutte queste critiche si può comprendere più facilmente la reazione di Muntar Kent che ha prima inserito due volti nuovi nel cda, poi ha rafforzato le sue operazioni in Africa con la creazione di Coca Cola Beverages Africa in joint venture con SabMiller e l’imbottigliatore locale Coca-Cola Sabco, e adesso ha lanciato questo piano di riduzione costi imponente, per far fronte al calo di profitti netti, che nel terzo trimestre del 2014 è stato del 14% (2,1 mld di dollari) e dell’8% nei primi nove mesi del 2014, a fronte di un fatturato sceso del 2% a 35,1 miliardi di dollari. Anche quest’anno, parole di Kent, le cose non dovrebbero andare bene. Il sospetto, neanche tanto velato, è che questo piano di tagli se non sarà accompagnato da reali azioni operative di rilancio delle vendite, servir solo a far digerire la crescita di remunerazione dato che le due entità si muovono su livelli comparabili.
Da evidenziare che all’interno del bilancio Coca Cola una delle voci peggiori è quella relativa al fatturato delle società di imbottigliamento di cui è proprietaria. Un problema ben conosciuto in Italia dove la filiale Coca-Cola Hbc Italia nel 2013 ha visto il suo fatturato scendere del 7,9% a poco più di un miliardo di euro con profitti netti negativi per 12 milioni circa e la decisione, anche in questo caso, di tagliare 160 dipendenti. Cui forse si aggiungerà qualcuno di Coca-Cola Italia, filiale diretta di Atlanta.