Tra finanza e agroalimentare c’è sicuramente attrazione, ma non amore cieco e tutti e due vedono chiaramente i difetti dell’altro. Ne apprezzano anche qualche reciproco pregio, ma probabilmente per non mostrarsi troppo arrendevoli non si sbilanciano in manifestazioni plateali di affetto. Questa è la sensazione che emerge al termine dell’intensa mattinata di tavole rotonde organizzate da D Club sotto il cappello del convegno Finance for Food, che si è tenuto presso la sede di Borsa Italiana a Milano. Il binomio può essere vincente, ma questi due mondi devono fare un passo l’uno verso l’altro, cosa decisamente meno scontata di quanto si possa pensare.
Il parterre di invitati era di tutto rispetto, con esponenti tra i quali Guido Barilla, Bob Kunze Concewitz, Andrea Rigoni per gli industriali e Andrea Bonomi di Investindustrial, Camillo Greco di Jp Morgan e Raffaele Vitale di Pai Partners per i finanzieri che hanno tenuto banco, cercando di comprendere quanto gli investitori finanziari o la quotazione in Borsa possano essere due soluzioni concrete per sostenere il made in Italy alimentare.
Secondo Raffaele Jerusalmi, amministratore delegato di Borsa Italiana che da padrone di casa ha aperto i lavori, ci sarebbero potenzialmente 200 società italiane quotabili nel settore food & beverage, per una capitalizzazione complessiva di una trentina di miliardi di euro, contro gli otto attuali delle 12 aziende che sono attualmente scambiate sui vari listini italiani. La cifra ipotizzata da Jerusalmi è sicuramente interessante e lo sbarco in porterebbe tante nostre aziende a rafforzare il patrimonio, molto spesso debole e incapace di sostenere investimenti di una certa entità. Il 2015 si presenta poi come un anno positivo per le borse europee e il Qe deciso dalla Banca centrale europea porterà molta liquidità sui mercati, disponibile per chi offra investimenti. Forse è questo il motivo per cui – notizia data proprio durante il convegno – Massimo Zanetti beverage group ha deciso di riprendere l’iter per la quotazione, che avverrà entro il 15 maggio di quest’anno secondo quanto ha dichiarato Pilar Braga, consigliere d’amministrazione della società e responsabile per Australia e Nuova Zelanda, intervenuta ad una delle tavole rotonde.
Cosa c’è di buono nella quotazione l’ha riassunto bene Kunze Concewitz, a.d. di Campari: “Se l’obiettivo è la crescita, grazie alla quotazione si attraggono capitali, ma anche talenti manageriali indispensabili per mettere in pratica correttamente i piani di sviluppo”. Spesso le aziende italiane mancano di tutte e due, nonché di una adeguata e trasparente governance, altro aspetto ritenuto decisivo per attrarre capitali. “L’apertura a un fondo di private equity potrebbe essere un passaggio intermedio verso la quotazione, per mettere a punto una buona governance, sistemi di controllo trasparenti e tarare gli assetti tra le varie anime dell’azienda” ha detto Camillo Greco, head of M&A consumer, retail, healthcare Emea di Jp Morgan. Ma quanto è concreto l’interesse del private equity verso il food nostrano? “Noi non siamo interessati a società di nicchia – dice Andrea Bonomi, fondatore di Investindustrial – ma a società e brand con potenzialità internazionali. Le aziende italiane sono troppo piccole e locali: in questo momento c’è bisogno di qualcuno che le aggreghi e faccia emergere le reali potenzialità”. “Se a questo si aggiunge – chiosa Raffaele Vitale, managing director Italy di Pai Partners – la complessità propria del sistema Italia per gli investitori, si comprende bene il perché ci siano poche operazioni di private equity”. Andrea Rigoni spiega bene quello che è il paradosso del food italiano: “Il nostro punto di forza, che è la ‘biodiversità’ delle nostre produzioni, spesso di nicchia, finisce per essere il punto di debolezza quando si vuole crescere, perché non viene ben compreso dagli investitori finanziari. I tedeschi, al contrario, hanno pochi prodotti molto omologati e sui quali fanno grandi volumi”. E la Germania esporta più agroalimentare dell’Italia, per quanto questo possa apparire incredibile se visto dalla Penisola.
Insomma, molti se e molti ma tra il mondo della finanza, così come in quelli dell’industria: “I tempi e modi della finanza non sono sintonici con quelli del food – è la sintesi di Guido Barilla, presidente della omonima società -. Noi spesso abbiamo bisogno di investimenti rilevanti e di tempo per avere un ritorno, tutto il contrario di quel che cerca la finanza”.
Trovare la sintesi non è facile. Ma può essere importante per il futuro del nostro made in italy alimentare – seconda industria del Paese – e vale la pena lavorarci.