È ufficiale: Andrea Guerra è il nuovo amministratore delegato di Eataly. Dopo aver ricoperto per cinque mesi la carica di consulente strategico per il Governo Renzi, l’ex ad di Luxottica è da oggi al timone del gruppo distributivo fondato da Oscar Farinetti. Del resto visti i piani di espansione aziendali era necessario coinvolgere un executive di caratura internazionale. Piani che lo stesso Farinetti ha illustrato in esclusiva in un’intervista rilasciata a Maria Cristina Alfieri e pubblicata sul numero di maggio di Food, che vi riproponiamo di seguito.
Qualcuno lo definisce un re Mida del retail. Conoscendo Oscar Farinetti, bisognerebbe forse cambiare un po’ l’antifona del mito e dire che tutto ciò che lui tocca diventa non (solo) oro, ma (soprattutto) bello. Fin da quando, più di due lustri fa, vendeva lavatrici usando come spot i versi di Tonino Guerra, la mission primaria di questo commerciante con la C maiuscola non era tanto fare soldi tout court, ma aggiungere un pizzico di poesia anche al più banale atto d’acquisto. Dimostrando che quando vendere non è il tuo primo pensiero, può succederti anche che vendi di più. E siccome di cose e belle e poetiche il nostro patrimonio enogastronomico ne ha in abbondanza, Farinetti ha potuto esprimere nel food tutta quella creatività che, per motivi fisiologici, negli elettrodomestici aveva contenuto entro certi limiti. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.’ L’abbiamo raggiunto nello store milanese, alla vigilia della presentazione del suo programma per Expo 2015, per chiedergli di fare un primo bilancio della sua avventura imprenditoriale e di anticiparci qualcosa sulle sue prossime evoluzioni.
Ripensando a tutti questi anni passati a sviluppare Eataly, qual è il successo di cui vai più fiero e, invece, l’errore che non vorresti ripetere?
Intanto mi fa piacere che tu dica ‘in tutti questi anni’… In realtà sono solo otto: niente, per chi fa questo mestiere. Eppure dal gennaio del 2007, quando ho aperto il primo negozio, abbiamo fatto un percorso incredibile! In otto anni Eataly è diventato il marchio più conosciuto al mondo per i cibi italiani di qualità: un risultato pazzesco, se paragonato a quelli di chi opera nel settore distributivo da una vita. La sfortuna del nostro Paese, lo ripetiamo spesso, è che le sue catene distributive non sono mai andate all’estero, mentre produttori e distributori si sono dati un gran da fare. Noi abbiamo una distribuzione eccellente, che non ha nulla da invidiare a nessuno, ma provinciale. Pensa invece a realtà come Carrefour, nato nel ’62, che oggi ha 80 ipermercati in Cina, o ad Auchan, del ’61, che in Cina ha 1.400 supermercati…
Noi abbiamo dovuto aspettare un imprenditore che arrivava dagli elettrodomestici…
Infatti! Ma, al di là delle aperture, la cosa che mi ha dato più soddisfazione in questi anni è che è stato compreso il concetto di ‘narrazione’ che sta dietro il nostro format: abbiamo avvicinato tanta gente comune ai cibi italiani di qualità, aiutandola a capire meglio le materie prime che ci stanno dentro, il valore profondo del cibo.
Avete fatto cultura.
E abbiamo contaminato molto: oggi per fortuna ci sono tanti emuli, gente che ha capito come dare più valore a ciò che vende. Abbiamo messo in moto una macchina destinata a far crescere l’apprezzamento del made in Italy in tutto il mondo: prevedo un futuro meraviglioso.
Veniamo agli errori.
Uno clamoroso riguarda un esperimento che avevo fatto prima di lanciare Eataly: avevo aperto tre Osterie fuori porta, una sorta di Eataly, ma senza la parte della vendita. Un flop pazzesco. Ci ho messo un po’ a capirlo, ma poi ho realizzato che, senza la vendita, la ristorazione da sola fa fatica, ha costi fissi enormi, a partire da quello del personale, che supera il 40 per cento. Il segreto di Eataly è stato proprio quello di abbinare la vendita alla ristorazione e alla didattica: nei nostri store puoi comprare le cose che mangi e mangiare le cose che compri, ma anche imparare a comprarle e cucinarle bene. E questo siamo riusciti a farlo perché siamo italiani: mentre negli altri paesi la cucina nasce nei ristoranti, da noi nasce in casa, quindi è insegnabile e replicabile.
Veniamo ai piani di sviluppo: hai già messo tante bandierine sul mappamondo, quante ne vuoi aggiungere ancora?
Visto che ci sono 194 paesi nel mondo, il nostro obiettivo è mettere 194 bandierine! Siamo già presenti in America e in Giappone, in Turchia e a Dubai. Il 12 maggio apriamo a San Paolo del Brasile, il 20 agosto a Seul, poi, entro fine anno, inauguriamo a Monaco di Baviera il primo Eataly in Europa dopo quelli italiani. Proseguiremo poi con Mosca e con il secondo negozio a New York.
Dove avete scelto una location d’eccezione…
Il World Trade Center, torre 4. Cinquemila metri quadrati con 200 metri di vetrata che si affaccia su ground zero: lo dedichiamo alla pace, si chiamerà ‘Eataly the peace’. All’entrata ci sarà una grande scala mobile e, una volta saliti, la prima cosa che si vedrà sarà un tavolo per otto persone, sempre imbandito e chiuso in una camera di cristallo, dove campeggerà la scritta: “Regnanti di tutto il mondo, quando volete siglare un atto di pace venite qui: offre Eataly”. Accanto metteremo la ‘cabina del perdono’, un’antica cabina telefonica americana con un telefono realmente connesso, che avrà una linea aperta con tutto il mondo. Qui scriveremo: “Se ti viene voglia di chiedere perdono a qualcuno, entra e fallo: la telefonata la offre Eataly”.
Dopo New York?
Nel 2016 proseguiremo con lo sviluppo in Europa, aprendo a Londra vicino a Selfridges (in joint venture con loro). Poi sarà la volta di Parigi, in joint con Gallerie Lafayette e poi ancora negli Usa: dopo New York e Chicago, proseguiremo con Boston e Los Angeles (abbiamo già firmato gli accordi) e siamo in dirittura d’arrivo per siglare un’intesa anche per un negozio a Miami. Completeremo la nostra presenza in Sud America, poi sarà la volta di pensare serenamente all’Asia, in particolare a Cina e India, dove abbiamo già decine e decine di compagnie che si sono candidate a diventare nostre partner, non abbiamo che l’imbarazzo della scelta.
Ritenterete quindi la carta asiatica nonostante le difficoltà avute in Giappone?
Torneremo in Asia, ma facendo molta più attenzione. In Giappone, in effetti, abbiamo perso parecchi soldi: adesso abbiamo venduto Eataly Japan a Mitsui, che svilupperà il format in franchising.
Implementerete altrove questa formula?
Il nostro modello funziona così: in Europa e in tutta l’America (dal Canada ai paesi latini) apriremo punti vendita diretti o in partnership con altre società, ma mantenendo la quota di maggioranza; nel resto del mondo privilegeremo la formula del franchising: l’abbiamo già sperimentata con successo a Istanbul e Dubai.
Come si declina in tutto il mondo un format dall’identità così forte come il vostro: quanto resta invariato e quanto si adatta alla realtà locale?
Per spiegarlo devo premettere una cosa molto importante: Eataly non è una catena, ma è una famiglia di ‘fratelli’ che hanno in comune il cognome e poi ognuno ha il suo carattere. Sai cosa fa sì che si respiri la stessa atmosfera nel punto vendita di Bologna di 500 mq e in quello di Milano di 5mila? La narrazione. Il grande segreto di Eataly è sempre stato la narrazione: la nostra cartellonistica, i nostri font, il nostro modo di spiegare è lo stesso dappertutto, nel negozio piccolo come in quello grande, in quello di New York come in quello di Tokyo. Parliamo dappertutto lo stesso linguaggio.
E il messaggio di fondo di questa narrazione qual è?
Se entri nel negozio di New York trovi all’entrata un grande cartello con scritto sopra: “Grazie America, avete dei prodotti fantastici”. Poi specifichiamo che per fare il nostro pane usiamo le loro farine che sono meravigliose, per fare la mozzarella usiamo il loro latte… Tutto però è fatto con 100% savoir faire italiano, che ha il grandissimo vantaggio di non pagare dazi, consentendoci di fare a New York la stessa mozzarella che facciamo a Caserta. Prendiamo, per esempio, la carne: non posso esportarla in America, ma posso esportare sperma e fare accoppiamenti, così mi sono rifatto la razza piemontese in Montana.
Un modo più evoluto di intendere il made in Italy?
Noi parliamo di savoir fare italiano. Entriamo nei diversi paesi con grande umiltà: esportiamo le grandi eccellenze italiane e il resto lo produciamo utilizzando le eccellenze locali e trasformandole con mezzi e competenze made in Italy.
All’inizio Eataly sembrava un’insegna nata per privilegiare i piccoli produttori artigianali, molto legati al territorio, poi c’è stato l’allargamento ai big brand, perchè?
Perché non avrebbe senso il contrario. Avremo sempre al nostro interno una larga maggioranza di piccoli e medi produttori locali, ma visto che in Italia abbiamo la fortuna di avere anche grandi aziende come Ferrero, Barilla, Lavazza, Rana, capaci di offrire un’eccellente qualità anche su larga scala, non sarebbe intelligente escluderli. Voglio poter offrire ai consumatori di tutto il mondo che cercano il meglio del made in Italy sia prodotti più mass market (ma comunque di alta qualità) sia referenze di super nicchia. Vogliamo continuare a portare nel mondo Barilla insieme ai nostri 1.900 piccoli produttori che abbiamo aiutato a crescere.
Vista l’espansione in atto, allargherete ancora il parco fornitori?
Il parco è destinato a crescere, anche perché le capacità produttive dell’Italia sono illimitate. Noi abbiamo 17 milioni di ettari coltivabili e ne coltiviamo solo 14 milioni (che peraltro sono in continua diminuzione). Di questi 14milioni, meno del 15% è destinato a produzioni agricole di alta qualità, come gli asparagi di Bassano, il peperone di Carmagnola, la carota di Polignano a Mare… L’Italia può e deve portare questa quota all’80%! Noi faremo la nostra parte nell’innescare questa crescita.
Si parla già di una vostra quotazione in Borsa: previsioni?
C’è chi dice nel 2016, chi nel 2017, chi nel 2018: sarà in uno di questi tre anni…
Quindi è confermata?
Un’azienda come la nostra, che è l’unica impresa italiana globale nel mondo della distribuzione non può non essere quotata. E dev’essere quotata in Italia.
Quanto metterete sul mercato pubblico?
Il 30%, il 70% resta a noi. Manterrò sempre la maggioranza, ma è giusto che un terzo di Eataly vada in mano agli italiani.
Darai delle quote ai dipendenti?
Ne parleremo, ma siamo molto aperti su questo fronte.
Veniamo ad Expo: qual è il massimo obiettivo che vuoi raggiungere attraverso la tua presenza lì?
Poetico. Quando fai un progetto è come se disegnassi una pesca, con nocciolo, polpa e buccia. Nel nocciolo devi scrivere i tuoi obiettivi (che devono sempre essere poetici, mai matematici), nella polpa devi scrivere le esperienze che vuoi che vivano i tuoi consumatori, i clienti, i partner, i collaboratori, il tuo pubblico in generale; nella buccia devi mettere le operazioni di marketing. Il mio nocciolo, l’obiettivo poetico, in Expo è narrare la meraviglia della biodiversità italiana al mondo, ma anche agli italiani per far prendere loro coscienza e orgoglio della nostra ricchezza, dei primati che abbiamo.
Quando sei immerso nell’eccellenza, spesso non te ne rendi conto…
Brava, è proprio così. Ci succede per il cibo la stessa cosa che succede per l’arte: abbiamo il 70% del patrimonio artistico mondiale e non ce ne rendiamo conto.
Concretamente come spiegherai questa ricchezza?
Abbiamo organizzato uno spazio con 20 ristoranti regionali in cui si alterneranno chef di ogni parte d’Italia per far degustare le cucine locali. Ma ci saranno anche due ristoranti tematici dedicati a pizza e piadina, il ristorante Bollicine Ferrari, il Nutella concept bar e il Ristorante Italia del Gusto che cucinerà i prodotti di alcuni dei più noti brand del made in Italy. Ci saranno corner dedicati ai consorzi di tutela delle nostre eccellenze, dal prosciutto di San Daniele al Grana Padano.
Quanto avete investito e qual è il break even?
Abbiamo investito circa 7 milioni di euro, grazie all’aiuto di tutti i partner intervenuti. Se riusciamo a sviluppare 20 milioni di euro, dando da mangiare a un milione e trecentomila persone, con uno scontrino medio di 15/16 euro, andiamo in pareggio.
E tutto questo non finirà con Expo…
No. Smonteremo tutto il nostro padiglione e lo rimonteremo a Bologna, dove sta prendendo forma Fico, un altro straordinario luogo di narrazione del made in Italy. Lì i visitatori ‘toccheranno con mano’ le nostre filiere, partendo dalla terra madre, seguendo i prodotti nelle diverse fasi di trasformazione e poi degustandoli al ristorante. Per la pasta, per semola diventare penna. La penna la si potrà poi mangiare al ristorante e comprare nello shop. Lo stesso percorso sarà replicato per tutte le altre filiere. Granarolo, per esempio, è già al lavoro per costruire quella che va dalla mucca allo yogurt.
La prossima ‘follia’?
La produzione di un musical, con la mia divisione Eataly media, che per ora produce solo i miei libri.
Che cosa c’entra con Eataly? Di che cosa tratta?
Con Eataly non c’entra nulla, ma mi sono innamorato dell’idea. È scritto da Shapiro e Cavani e s’intitola Tina, che è l’acronimo di ‘There is no alternative’, la famosa frase che ripeteva Margareth Thatcher e che poi è diventata lo slogan di molti politici neoliberisti del secolo scorso. La storia narra i nostri anni 80, il ventennio che ci ha rovinati. L’Italia nel ’79 aveva il debito pubblico pari a zero, alla fine degli anni ’90 se lo è ritrovato a quota 2mila200 miliardi.
Ci siamo rilassati.
Sì, è l’espressione giusta. Dopo il miracolo economico, abbiamo avuto vent’anni di rilassamento che ci hanno fregati.
Eataly media creerà anche una tv?
Non so quando, ma sì, mi piacerebbe. In 8 lingue e 22 paesi del mondo. Però per partire bisogna avere idee chiare. La tv che ho in testa deve parlare di scienza, contadini, allevatori. Bisogna iniziare a raccontare il cibo in un modo diverso.
Quando si parte?
Sarebbe bello nel 2017. Da adesso in poi avrò sempre più tempo per nuovi progetti: non ho più cariche in Eataly, mi sono anche dimesso da presidente (lo è diventato il figlio Francesco, ndr.), le quote le hanno i miei figli, io torno ad essere libero.
Niente politica?
Se intendi quella istituzionale, no grazie. Me l’hanno già chiesto molte volte e ho sempre declinato. La politica la faccio attraverso tutte le mie attività. Educando al gusto e al bello, provando a risvegliare l’orgoglio nazionale. Continuando a fare bene quello che so fare.