All’apertura di Expo 2015, un evento storico per il nostro Paese e, in particolare, per il sistema agroalimentare italiano, è lecito interrogarsi su quale sia l’immagine di made in Italy che vogliamo mettere in vetrina. Quale idea di Italian food vogliamo che si ‘portino a casa’ i milioni di persone che da tutto il mondo verranno a visitare l’esposizione universale di Milano.
Un mese fa abbiamo individuato un primo punto fermo per orientare la riflessione, sostenendo la necessità di fare un passo avanti rispetto all’idea che gli ambasciatori del made in Italy potessero essere solo gli imprenditori italiani. Facevamo l’esempio di Sanpellegrino e di quanto abbia fatto bene all’italianità del brand la potenza di fuoco del gruppo Nestlé, che con intelligenza ha difeso sui mercati internazionali la peculiarità italiana del marchio, ha creato delle strutture commerciali ad hoc, ha fatto da traino ad altri brand italiani e ha continuato a creare ricchezza nel nostro Paese. Con piacere abbiamo trovato conferma alle nostre tesi nel saggio ‘Tra l’asino e il cane’ di Francesco Pugliese scritto proprio con l’intento di abbattere quei luoghi comuni che frenano lo sviluppo del Paese: “Possiamo dire che l’espressione ‘italianità’ è stata usata per molti anni come una scusa utile a evitare che venissero intaccati patti di sindacato, equilibri conservativi, dinamiche retrograde, aziende decotte? – scrive il numero uno di Conad -. Il nostro interesse, parlo come imprenditore e come manager, non può essere più legato al ‘di chi è l’azienda’, ma al ‘cosa fa quell’azienda’ anche per il nostro Paese”.
Seguendo questo filone, che colloca il made in Italy al di sopra di ogni questione proprietaria e dimensionale, ma lo lega a filo doppio alla qualità di un ‘saper fare’ unico e irripetibile, non possiamo che essere contenti che a rappresentare all’interno di Expo questo concetto ci sia (anche) un format come Eataly. Uno straordinario merito di Farinetti (oltre a quello di saper narrare al mondo la bellezza e il sapore della nostra biodiversità) è stato proprio quello di aver saputo mettere sotto uno stesso ombrello – non senza attirarsi critiche dai più integralisti – l’offerta del piccolo artigiano locale e quella della grande multinazionale. In nome della qualità è stato bypassato l’ozioso luogo comune del ‘piccolo è bello’, perché la bellezza non è sinonimo di grandezza, ma di fattura. “Noi parliamo di savoir faire italiano – ci ha spiegato nell’intervista pubblicata sul numero di maggio di Food -. Voglio poter offrire ai consumatori di tutto il mondo che cercano il meglio del made in Italy sia prodotti più mass market (ma comunque di alta qualità) sia referenze di super nicchia. Vogliamo continuare a portare nel mondo Barilla insieme ai nostri 1.900 piccoli produttori che abbiamo aiutato a crescere”.
Senza nulla togliere alla straordinaria capacità di valorizzare il territorio che hanno le imprese locali, dobbiamo essere altrettanto orgogliosi di chi oggi racconta al mondo che cosa sono in grado di fare le nostre ‘imprese artigianali’ quando crescono e conquistano i mercati globali.
di Maria Cristina Alfieri