Troppo piccole, troppo poco competitive fuori dai confini nazionali, troppo carenti di capitale per rassicurare i finanziatori e attrarre talenti manageriali. Le imprese agroalimentari italiane soffrono di un difetto tipico delle aziende italiane ma, se possibile, in forma ancor più grave perché il settore è realmente polverizzato.
La crisi che sta attraversando l’Italia in questi anni e il calo di consumi che ne è seguito ha costretto molte aziende del food and beverage nostrano a guardare sempre più fuori dai confini nazionali alla ricerca di mercati che potessero assorbire l’offerta che non si piazzata più all’interno dei confini. Operazione non sempre facile, perché dietro a qualche caso di successo ci sono anche molte difficoltà ed è cresciuta la consapevolezza che la taglia non è ininfluente quando bisogna aggredire un mercato estero. Anzi.
Intorno a questi temi si sono confrontati alcuni protagonisti della scena alimentare italiana in un convegno organizzato dalla società di consulenza Kpmg in collaborazione con IntesaSanpaolo e moderato da Cristina Alfieri, direttore editoriale di Food. Tanti gli spunti emersi, dalle conferme “macro” che le nostre imprese sono piccole rispetto a quelle di altri Paesi e sottocapitalizzate, come ha ricordato Gregorio De Felice, il capo economista di IntesaSanpaolo secondo cui l’Italia è penalizzata dell’export non solo per la taglia delle proprie imprese, ma anche per mancanza di una rete di distributori come quelli che hanno Francia, Germania e Inghilterra (Carrefour, Metro, Tesco tanto per citarne alcuni) e catene di hotellerie e ristorazione etnica. Proprio la mancanza di sponde di sistema fa si che l’export possa addirittura causare un calo di redditività, come si è evidenziato negli ultimi anni, perché bisogna essere molto competitivi per entrare in mercati esteri soprattutto in presenza di un euro forte e penalizzante. In questi casi una maggiore dimensione aziendale permette di assorbire meglio questi sforzi finanziari.
Per il partner di Kpmg Paolo Mascaretti “Il settore è adesso molto attraente per gli investitori finanziari che siano interessati a estrarre tutte le potenzialità che possiede in termini di export”. Nel 2014 su 36 operazioni di M&A dieci sono state appannaggio di finanziari, soprattutto private equity. Una quota che potrebbe aumentare nel tempo per la difficoltà che gli imprenditori hanno a dialogare tra di loro su questi temi.
Tra gli investitori finanziari è Claudio Berretti, direttore generale di Tamburi Investment Partners, il primo a spiegare la propria filosofia di investimento: “Cerchiamo imprenditori che abbiano progetti ambiziosi per le proprie aziende. Questa è la filosofia che ci guida negli investimenti, com’è stato per Eatinvest, la holding proprietaria di Eataly di cui abbiamo acquisito il 20% insieme a un nucleo di famiglie nostre partner. Gli fa eco l’ex amministratore delegato di Ferrero Gino Lugli che ora guida Glenalta, una Spac (special purpose acquisition company) che vuol farsi polo aggregante nel settore attraverso questa nuova tipologia di società che darebbe maggiori garanzie a investitori e aziende che aprono il capitale.
L’aspetto manageriale è inoltre fondamentale per gestire le operazioni post acquisizione, ritenute importantissime da Kpmg per non far naufragare il tutto: due i modelli a confronto, Massimo Zanetti beverage Group (fresca di sbarco in Borsa) da un lato, che nel processo di crescita per linee esterne ha privilegiato tendenzialmente il mantenimento del management locale e quella di Granarolo che esporta manager italiani nelle proprie conquiste estere.
Kpmg, l’M&A nel food è fondamentale
Giudizi unanimi nel convegno organizzato dalla società di consulenza in collaborazione con il Gruppo Food: manager e finanzieri sono tutti concordi nel dire che questo è il momento giusto per l'alimentare italiano
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