Fine anno, tempo di bilanci. Non solo prettamente numerici, come quelli elaborati da Mediobanca che tradizionalmente pubblichiamo sul nostro numero di dicembre, ma anche strategici e qualitativi, relativi alla visione che sta orientando il proprio business e alle conseguenti sfide da affrontare. Tirando le somme dell’anno che sta per concludersi e provando a immaginare qualcosa di quello che verrà, facciamo nostre alcune riflessioni interessanti che abbiamo raccolto sul mercato in questi ultimi mesi.
Intanto qualche nota positiva. L’export italiano, come già ampiamente sottolineato in passato, continua a tenere, anzi va meglio della media del mercato mondiale e anche la domanda interna sembra sul punto di riprendersi: in un recente incontro organizzato da Nielsen, l’economista Francesco Daveri ha fatto notare come la crescita della domanda si appresti a passare dal +0,6% del 2015 a un +1,2% nel 2016 e una percentuale simile dovrebbe tenere anche nel 2017 e 2018. Abituati a vedere nella domanda interna il problema da risolvere, non ci siamo però accorti che il vero problema per la ripresa della nostra economia si è progressivamente ‘spostato’ sull’offerta. “Alla ripresa italiana paradossalmente manca l’offerta più che la domanda – ha notato Daveri – e lo dimostra il fatto che solo in Italia, tra tutti i paesi europei, si registra un boom di importazioni che, tra l’altro, procede di pari passo con il mancato decollo della produzione industriale”. Numeri alla mano, Daveri fa notare che la ripresa iniziata nel 2015 è la prima – rispetto a quelle del 2009, 2005 e 1999 – in cui si inverte il peso di importazioni ed esportazioni a favore delle prime. Tra l’altro il nostro Paese è l’unico a registrare un incremento dell’import addirittura del 2% contro un 1,5% della Spagna, un 1,2% della Germania, un 1,6% della Francia e un 1,2% del Regno Unito. Da qui la necessità per i nostri produttori di investire con forza in innovazione e taglio dei costi per raggiungere quella competitività necessaria ad essere più attrattivi rispetto ai competitor esteri, che ‘rischiano’ di beneficiare più di noi della ripresa dei consumi.
E sul fronte retail? La sfida da superare in questo caso si riassume tutta in un nome, che evoca un universo di cambiamenti in atto: Amazon. L’entrata in scena di questo player – che ha dalla sua il vantaggio estremo di nascere come operatore logistico, non avere problemi di budget ed essere straordinariamente veloce nella messa in atto delle sue strategie – dovrebbe far riflettere molto i retailer non tanto e non solo sulla necessità (ormai ampiamente condivisa) di spingere l’accelerazione sull’integrazione tra canale fisico e virtuale, quanto sulla maniacale attenzione al servizio che sta rendendo inarrestabile la crescita di Amazon sui mercati mondiali. “Dopo l’ingresso nell’alimentare in Italia – ha fatto notare Romolo De Camillis, retail director di Nielsen – Amazon è riuscito a posizionarsi in pochissimo tempo su prezzi che sono di circa 5 punti sotto la media del mercato e questo senza mai fare comunicazione di prezzo ai suoi clienti, ma solo di servizio”. Una lezione destinata a cambiare le regole del gioco nella stessa competizione tra retailer, che non dipenderà più tanto dalla corsa alla location migliore, ma dall’offerta del servizio più efficace e distintivo in tempi più rapidi di tutti gli altri. Come ha spiegato a Food Edouard Leclerc, la rivoluzione digitale che tra vent’anni avrà fatto trasmigrare in rete una fetta importantissima dei consumi alimentari, deve stimolare una profonda riflessione sul ruolo dei punti vendita fisici, a partire dagli ipermercati che, iniziando da adesso, devono implementare la loro attitudine a essere luoghi conviviali, di incontro, dove si danno consigli, si scambiano suggerimenti, si testano prodotti, si fanno esperienze. Da realtà che hanno costruito la loro offerta sulla centralità del grocery devono diventare luoghi che legano la loro ragion d’essere al servizio. Una rivoluzione copernicana.
di Maria Cristina Alfieri