Anche quest’anno il mese di maggio è stato denso di momenti d’incontro e confronto per i protagonisti del largo consumo. La seconda edizione del nostro Food Summit, il Cibus, Linkontro Nielsen hanno stimolato interessanti riflessioni sul futuro dell’industria alimentare italiana, sulle sue prospettive di crescita all’estero e sui cambiamenti che, insieme al mondo della distribuzione, deve affrontare per soddisfare una domanda in continua evoluzione. Sono state date diverse definizioni del particolare momento economico e sociale che stiamo vivendo: si è passati dal concetto di disruption – che ben riassume quel mix di incertezza economica, invecchiamento della popolazione e rivoluzione digitale che ha cambiato i connotati al mercato del largo consumo – alla connotazione della contemporaneità come un’era dell’impazienza, dove essere agili, veloci, reattivi è una condizione necessaria per soddisfare una domanda che non vuole (o non sa) più aspettare. Le ricette per adattarsi alla disruption e all’impazienza? Ne sono emerse molte, ma il leitmotiv di fondo è stato (quasi) sempre lo stesso: è finita l’epoca delle fughe in avanti in solitaria, la crescita sarà sempre più il prodotto di un lavoro di squadra, di uno sforzo congiunto tra partner commerciali, perfino tra competitor.
LA SFIDA DELL’INTERNAZIONALIZZAZIONE – Prendiamo, per esempio, la sfida di crescere sui mercati esteri: analizzando i business model di paesi che esportano più di noi pur non vantando la stessa qualità e quantità di prodotti che abbiamo noi (come Francia, Spagna e Germania), una bella ricerca di AlixPartners presentata in occasione del Food Summit, ha evidenziato come la carta vincente dei cugini europei sia proprio la capacità di fare squadra e di aggregare l’offerta, plus che facilita il rapporto con la grande distribuzione mondiale, consente importanti economie di scala e quindi rende l’offerta più competitiva (scarica la ricerca di AlixPartners e guarda la presentazione video). Qualcuno è rimasto sorpreso nel constatare che la Germania ci sorpassa di gran lunga nell’export dei formaggi con 1,2 milioni di tonnellate (contro i nostri 0,3 milioni) e un prezzo medio al chilo di 3,3 euro contro i 6,6 dei prodotti italiani. E il costo non dipende solo dall’eccellenza della produzione, ma anche da un tema di efficienza di filiera: in Germania il costo del latte è di 0,38 euro al litro contro un costo italiano di 0,42.
GRANAROLO E ZONIN, LE BUSINESS CASE DA IMITARE – Migliorare la collaborazione a livello di filiera e aggregare l’offerta sui mercati esteri è quanto stanno facendo due imprese italiane che, non a caso, stanno crescendo all’estero in modo sorprendente: Granarolo e Zonin. La prima ha spinto l’acceleratore sul fronte delle acquisizioni arrivando a ottenere una dimensione che le consente di competere con i giganti del dairy del Nord Europa e ha da poco creato una piattaforma per portare all’estero, insieme ai suoi latticini, anche prodotti come pasta, olio, conserve, aceto balsamico; la seconda (che realizza l’84% del fatturato fuori dai confini nazionali) ha ideato le Gastronomic Experience invitando chef, sommelier e buyer internazionali a scoprire i piccoli produttori di qualità dei nostri territori, convinta che anche un vino di qualità si venda di più e meglio se è espressione di una ‘ricchezza territoriale’ che va ben oltre le sue etichette. È stata questa, in sintesi, la lezione di Expo e il segreto del suo successo. I più attenti l’hanno perfettamente capito.
FARE SQUADRA, LA PAROLA D’ORDINE – Ma fare squadra è un concetto che deve ‘vincere’ anche sul mercato interno. Se vogliamo passare dall’attuale modello di offerta basata sulla quantità (di referenze, promozioni e sconti), che ha perso di efficacia e confuso il consumatore, a un modello incentrato sulla qualità (puntando sull’innovazione e sul digitale) – come ha efficacemente sottolineato durante Linkontro Nielsen Sami Kahale, presidente di P&G – bisogna far fare un salto di qualità alla partnership tra industria e distribuzione. Se ne parla da anni, a dire il vero. E tutti, sempre, sono d’accordo nel realizzarlo. Nei dibattiti pubblici piovono applausi e consensi. Ma quando si passa dalla teoria alla pratica, tutto resta come prima. Si ha quasi la sensazione che ci sia uno scollamento tra le dichiarazioni dei vertici e le azioni dei commerciali. Perché non si mettono in pratica le buone intenzioni? In un Paese in cui ci sono più cellulari che spazzolini da denti (copyright Sami Kahale), ha più senso impiegare le energie per riflettere sull’ennesima promozione o per costruire nuove modalità di relazione con i consumatori?
Chi è deciso nella risposta, lo sia anche nei fatti.