In base ai dati di Frantoio Italia, la banca dati sull’olio d’oliva gestita dall’Ispettorato per il controllo della Qualità del Mipaaf, al 30 aprile scorso in Italia c’erano in giacenza 346mila tonnellate di olio extravergine di cui 122mila di 100% italiano. Un volume lontano dai consumi interni (circa 600mila tonnellate l’anno, 11,9 chilogrammi pro capite), e ancora di più dal reale fabbisogno nazionale (oltre un milione di tonnellate, comprendendo anche le circa 400mila l’anno che vengono esportate) secondo i calcoli di Assitol citati dal Sole 24 Ore.
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La produzione italiana di olio d’oliva extravergine negli ultimi anni si è assestata, secondo Ismea, attorno alle 250mila tonnellate. Per trovare una produzione in grado di soddisfare almeno i consumi interni (e comunque non l’export) bisogna risalire alla fine degli anni ’90 quando si dichiaravano oltre 700mila tonnellate di prodotto.
Di fatto, se in passato era necessario acquistare olio all’estero (Spagna in primo luogo ma anche Grecia e Tunisia) solo per riesportarlo in blend con extravergine italiano, adesso non si vede come se ne possa fare a meno anche per i consumi interni. Del resto, puntando solo sull’olio italiano sarebbe sfumato anche l’incremento del 9% dei consumi di extravergine registrato nell’anno della pandemia.
“Il deficit produttivo di cui soffre l’olio italiano – spiega la presidente del Gruppo Oliva di Assitol, Anna Cane – è ormai un dato di fatto. Ce lo indicano chiaramente le rilevazioni, per giunta da fonti ufficiali. Salta agli occhi che, purtroppo, di olio extravergine di origine italiana non solo non ce n’è per tutti, ma ce n’è davvero per pochi. Il consumatore, per mettere in tavola l’extravergine tutti i giorni, ci chiede un rapporto qualità-prezzo equilibrato. Come si concilia questa richiesta con l’idea, spesso veicolata in ambito agricolo, che solo l’olio più costoso garantisce davvero il consumatore? L’Italia, non dimentichiamolo, controlla i suoi prodotti alimentari grazie all’impegno di ben otto organismi pubblici. La qualità non è in discussione. Il punto è lavorare in modo più efficiente per contenere i costi e aumentare la competitività sul mercato, oltre che offrire maggiori possibilità di remunerazione ai produttori, in un’ottica di sostenibilità economica”.
PIANI PER IL RILANCIO
Ben due piani strategici nazionali (nel 2010 e nel 2016) e un piano d’azione Ue (nel 2012) tutti dedicati all’olivicoltura rimasti prevalentemente lettera morta sono forse la plastica rappresentazione delle difficoltà di tradurre i propositi in realtà, in Italia e non solo. Di fatto la produzione italiana fa ormai segnare ogni anno un nuovo minimo storico.
La sproporzione tra obiettivi annunciati e risorse investite è nel Piano di settore olivicolo-oleario del 2016, che doveva rappresentare la versione riveduta e corretta del piano del 2010. “Purtroppo – commenta il presidente di Italia Olivicola, Fabrizio Pini – possiamo tranquillamente affermare che il nostro Paese non abbia mai potuto godere di un vero Piano olivicolo. E gli interventi solo annunciati ma poco concreti hanno avuto l’effetto di far perdere ancora valore e competitività all’olivicoltura italiana. Un passo importante sarebbe ora quello di coinvolgere la filiera nei progetti del Piano nazionale di ripresa e resilienza, per costruire un percorso organico di rilancio strutturale dell’olivicoltura”.