Mario Gasbarrino ha molti dubbi, altrettante certezze, ma soprattutto una grande paura: che la distribuzione italiana, il settore in cui lavora da oltre trent’anni, non capisca che il mondo è cambiato, rendendo di colpo superate le tattiche e persino le strategie utilizzate finora. E se non ce siamo ancora accorti, è perché guardiamo con gli occhi del passato a un futuro che è già iniziato. Ecco il motivo di questa intervista a Food, in cui attinge a piene mani al suo repertorio di provocazioni e metafore – di cui è maestro – con il solo scopo di lanciare l’ennesimo allarme. “Io non so dire che cosa accadrà – premette l’Amministratore Delegato di Decò Italia – ma mi pongo il dubbio, mentre intorno a me vedo tanti addetti ai lavori che parlano dell’e-commerce con sufficienza, basandosi su ragionamenti e ricette che non funzionano più o addirittura che non hanno mai funzionato. Gli appassionati di enigmistica sanno di certo cos’è una ‘pista cifrata’: tanti puntini numerati, posti a distanze diverse l’uno dall’altro, ma basta unirli con una linea per formare un disegno. Ecco, io considero le iniziative e gli esperimenti dei pure players, a cominciare da Amazon, come tanti puntini, apparentemente scollegati tra loro. Ma il disegno c’è, noi lo vedremo solo quando emergerà e allora sarà troppo tardi per reagire”.
Il punto di partenza del ragionamento – da lei espresso in varie occasioni – è che l’online è uno spartiacque nella storia del commercio. È così?
“Sì, ne sono pienamente convinto. È un cambiamento davvero epocale e se dovessi ricorrere a uno slogan, direi che il retail si divide in prima e dopo l’online, così come la storia si divide in prima e dopo Cristo. Il primo periodo è durato oltre 2mila anni, accomunati da un aspetto fondamentale e cioè che per poter acquistare il cliente doveva recarsi in un luogo fisico: il mercato all’aperto, quello ambulante, il negozietto tradizionale, infine il supermercato e i vari format del commercio moderno. In pratica, l’ultimo miglio doveva coprirlo il cliente, a meno che non appartenesse a una casta privilegiata che poteva permettersi di farsi approvvigionare direttamente di tutta la merce. L’online ha ‘democratizzato’ questa fase del processo d’acquisto: oggi non c’è bisogno di essere la regina d’Inghilterra per ricevere la spesa a casa”.
Qual è la conseguenza di questo cambiamento per gli attori del mercato?
“È la fine del duopolio industria-distribuzione, perché c’è un terzo attore, il pure player, che è capace di arrivare direttamente sul cliente finale senza sapere da dove parta la merce. È l’equivalente della caduta del muro di Berlino: prima c’erano due poli contrapposti, Stati Uniti e Urss, ma da lì in poi il quadro geopolitico mondiale è diventato molto più frammentato. Noi pensiamo sempre ad Amazon, ma c’è tanto altro. Per esempio Gorillas, una startup nata a maggio 2020 a Berlino, che si è sviluppata già in 12 città, come Londra, Amsterdam, Monaco e Milano. Ha 40 depositi, offre 2mila articoli e consegna a casa tramite rider mediamente in 10 minuti, al costo di 2 euro. Ha raccolto 290 milioni dai fondi di investimento ed è valutata 1 miliardo di euro. Tutto questo in un solo anno di vita. E non è un caso isolato. Provo a dirlo nel modo più chiaro possibile: è uno tsunami e punta su di noi retailer fisici”.
Cosa comporta tutto questo per la Gdo?
“Per esempio è cambiato il valore degli asset. Nel mercato prima dell’online, l’asset di un distributore era la rete commerciale: più negozi fisici aveva sul territorio, più clienti riusciva a contattare. Gli asset del nuovo mercato sono le reti logistiche. I depositi contano più dei negozi, perché da lì parte la merce e se un retailer vuol fare attrazione in una determinata zona geografica, deve avere un presidio logistico. È già successo con le banche, che sono state attaccate prima dall’online perché non spostavano merce fisica, ma denaro. Ad andare in difficoltà sono stati gli istituti bancari che hanno strapagato reti di sportelli che nel giro di poco tempo hanno perso drammaticamente valore. Lo stesso è accaduto con le assicurazioni, le agenzie di viaggio. Ora tocca a noi. La capillarità delle reti di prossimità è però anche un punto di forza della Gdo, che i pure players non hanno e che costruiranno con difficoltà nel tempo. Dovremo essere bravi a sfruttarlo”.
Ma lei che opinione ha dell’e-commerce?
“Rispondo con un paragone che ho utilizzato altre volte in passato: l’online è come il colesterolo, esiste quello buono e quello cattivo”.
Parliamo prima di quello cattivo.
“È l’online dei marketplace, capace di distruggere i format che prosperavano grazie alla numerosità degli articoli, alla profondità dell’assortimento. Gli ipermercati, i grandi category killer, dove trovavi 100mila referenze e anche più. Numeri ridicoli rispetto a un marketplace, che se ha una logistica integrata a livello mondiale può contare decine di milioni di referenze. Non c’è competizione, soprattutto su merceologie – per esempio l’elettronica di consumo o a tendere tutto ciò che avrà una perfetta confrontabilità, come detersivi, profumeria, ma anche drogheria – in cui aspettare anche una settimana la consegna del prodotto è irrilevante per il cliente”.
E l’online buono qual è?
“È quello dell’ultimo miglio, che non ammazza il punto vendita, ma ne amplia l’area di attrazione. Da solo o in collaborazione con un pure player, il negozio arriva a vendere a consumatori collocati fuori dal suo bacino di utenza fisico, dando la possibilità alle insegne di ampliare il giro d’affari senza fare sviluppo immobiliare”.
Ma è proprio questa la logica con cui sta operando tanta Gdo italiana. In cosa sbaglierebbe?
“È vero, di iniziative ce ne sono tante, in particolare nel click & collect. E c’è un’insegna, Esselunga, che ha accumulato un vantaggio enorme per il fatto di essere stata la prima a muoversi. Ma la mia impressione è che molti portino avanti progetti senza una visione strategica. Ciascuno è convinto di aver trovato il sistema più efficiente, sebbene il vero riscontro dovrebbe arrivare dal cliente. E più di ogni altra cosa, restiamo troppo invischiati nel nostro mondo, non abbiamo lo sguardo libero da pregiudizi dei pure players, che proprio per questo ci faranno neri. Più che copiare i loro modelli di business, spesso banali, sarebbe necessario entrare nel dietro le quinte per capire come i pure players riescono a fare queste cose fregandosene dei dogmi di cui la Gdo è schiava”.
Ci aiuti a capire con un esempio.
“Parto da un aspetto su cui io stesso ho cambiato opinione. La mia idea, quando ero Amministratore Delegato di Unes, era di riprodurre nell’online il negozio fisico, come se il cliente avesse di fronte a sé lo scaffale: fa scorrere l’immagine, trova il prodotto che gli interessa e cliccandoci su lo mette nel carrello virtuale. Amazon su cosa ha puntato? L’ordine vocale: il cliente pronuncia il nome della categoria, del prodotto e il sistema gli propone il risultato della ricerca. È una soluzione più semplice, immediata. E nel caso di Amazon si integra perfettamente con l’assistente vocale Alexa. Vedete come i puntini della ‘pista cifrata’ si uniscono? E questo ci porta alla più grande differenza tra noi, addetti ai lavori della Gdo, e i pure players”.
Quale?
“Noi pensiamo a ottimizzare l’assortimento in funzione delle quote di mercato; ci arrovelliamo in lunghe riflessioni per decidere se è meglio tenere a scaffale 6mila oppure 8mila referenze, come se cambiasse qualcosa rispetto a un paniere totale che di prodotti ne conta forse 600mila. Ai pure players dell’assortimento non frega niente, vendono quello che trovano sul mercato. Il 99% dell’attenzione lo dedicano a rendere semplice e piacevole l’esperienza d’acquisto. Ed è quello il terreno su cui si giocherà la sfida: il servizio. Almeno per ora, nel senso che quando tutto il mercato avrà sviluppato modelli simili la differenza andrà creata anche sull’offerta, oltre che sul servizio. Ma quest’ultimo è fondamentale e i pure players lo hanno compreso meglio di noi”.
E la centralità del cliente di cui tutta la Gdo parla da anni?
“Appunto, ne parliamo e basta. Se davvero avessimo avuto a cuore la semplicità della transazione, in cento anni da quando è nato il supermercato qualcuno si sarebbe posto il problema di come eliminare l’affollamento alle casse, cioè la parte più noiosa del processo d’acquisto nel fisico. E non dico di togliere del tutto le casse, quella è un’iperbole, ma almeno immaginare un sistema simile al telepass per il cliente fedele, che pur di non fare la fila è disponibile a spendere qualcosa in più. Pensiamo al servizio di consegna a domicilio, che in teoria è una cosa bellissima e che noi distributori fisici facciamo da molto prima di Amazon. Come funziona oggi? Il cliente fa la spesa, si mette in coda alla cassa, paga e poi deve cercare l’addetto o il direttore del punto vendita per chiedergli la consegna a casa. Può capitare che debba attendere altro tempo, contrattare sull’orario di consegna e comunque i freschi e i surgelati deve portarli via subito da sé. Insomma, la fase finale del processo d’acquisto è già complicata e con la consegna a domicilio noi la complichiamo ulteriormente”.
E quale potrebbe essere l’alternativa?
“Un modello in cui al cliente tocca solo la parte piacevole dell’esperienza di acquisto: girare per il punto vendita e mettere i prodotti nel carrello. Una volta arrivato alle casse, molla il carrello così com’è, fa una strisciata di carta di credito come in albergo e la spesa – tutta la spesa – gli viene consegnata a casa. Ma per capire come strutturare un servizio del genere bisogna fare investimenti e non parlo solo di soldi, ma soprattutto di intelligenza. In molti, per esempio, sono convinti che questo servizio sia gradito solo ai clienti più anziani e quindi fanno fatica a coglierne le opportunità di innovazione. I pure players, estranei al nostro mondo, stanno capendo meglio di noi la traiettoria che ha preso il retail. Una traiettoria che per molti versi ci riporta al passato”.
In che senso?
“Ho spesso detto che noi distributori siamo come un criceto nella ruota. Siamo partiti dal negozio tradizionale, passando in seguito ai piccoli supermercati. Poi è iniziata la stagione di ‘tutto sotto lo stesso tetto’: grandi supermercati, ipermercati. Adesso torniamo indietro, perché i negozi si rimpiccioliscono e si specializzano, sorgono depositi ‘periferici di prossimità’. Il cliente sceglierà il punto vendita in base a quello che intende comprare, così come sceglie il ristorante in base a ciò che desidera mangiare. Ma il ritorno al passato non ci esime dall’adeguarci al cambiamento culturale in atto”.
Il problema principale non sono i soldi, ma le idee?
“È così. Vi sembra normale replicare nell’online gli stessi errori che facciamo da decenni nel fisico? Su tutti i siti e-commerce delle insegne della Gdo italiana sono evidenziati i prodotti in promozione. In alcuni di questi siti c’è la funzione per vedere tutte le promo attive: in pratica aiutiamo i clienti a diventare cherry pickers. Non stava scritto da nessuna parte che anche la vendita online dovesse ruotare tutta intorno alla follia delle promozioni. Eppure lo abbiamo fatto, perché non riusciamo a pensare in modo diverso. Aggiungo che c’è poi un problema di organizzazione e di competenze, che mancano nelle aziende, ma anche sul mercato”.
La questione del prezzo è legata a quella della marginalità, negativa nell’online. Come se ne esce?
“La marginalità è negativa per come facciamo l’e-commerce oggi, non è detto che sarà così anche domani. Inoltre, ribadisco, dobbiamo capire che è iniziata una nuova era: in uno scambio di opinioni su Linkedin, a un addetto ai lavori che sollevava la questione della marginalità dell’online ho risposto che quando i fratelli Wright hanno inventato l’aereo, l’ultima preoccupazione che avevano era il consumo al litro”.
Ma per dare continuità al business online sarà necessario aumentare i prezzi?
“Questa è una strada, certo la più semplice. Il picking e il delivery incidono dal 25 al 30%, a volte anche di più. Qualche punto puoi risparmiarlo se il picking avviene in un deposito dotato di tecnologie di automazione, che però richiedono investimenti importanti. Il margine lordo della Gdo è mediamente attorno al 30% e verrebbe quindi totalmente eroso. Capisco che al momento sia quasi obbligatorio consegnare pressoché gratis, perché un operatore delle dimensioni di Amazon ha ‘rotto’ il prezzo, come si dice in gergo. Peraltro il costo dell’abbonamento annuo al servizio Prime è già aumentato rispetto a quando fu lanciato e in America è nettamente più alto, a dimostrare quale sarà la tendenza. Nell’immediato la Gdo non può sottrarsi alla competizione di prezzo, ma in prospettiva dovrà farsi pagare il servizio dal cliente. Anche perché chi prova l’e-commerce, soprattutto se è fatto bene, non torna al fisico. Poi ci sarà sempre una fascia di consumatori con un potere d’acquisto più contenuto che magari troverà nel discount, più che nell’e-commerce, la risposta adatta alle sue esigenze. Esiste però la frontiera dei prezzi dinamici, che nel punto vendita sono al momento impraticabili: sfruttando la tecnologia, sarà possibile aumentare la marginalità di uno specifico carrello di un cliente con effetti sulla marginalità complessiva del canale. Inoltre, si creeranno servizi premium a pagamento e servizi low cost in cui è il distributore a fare efficienza nelle operations”.
Un’obiezione comune è che l’e-commerce esiste da decenni e nel largo consumo ha una quota di circa il 3%, peraltro in parte dovuta alla pandemia.
“È vero, ma guardiamo ai tassi di crescita: le vendite online di largo consumo aumentano al ritmo del 100% anno su anno, il canale fisico cresce del 2% se va bene. Anche un leone quando nasce assomiglia a un gattino, ma non per questo dormirei sonni tranquilli con un leone che mi cresce in casa. Inoltre io non dico che il futuro sarà solo e-commerce, per quanto al momento ci sia un problema di offerta limitata e inadeguata: il fisico resterà, ma sarà molto diverso”.
Come saranno allora i negozi del futuro?
“Non voglio passare per uno che ha tutte le risposte, perché non è così. E infatti mi rifaccio a quanto il giornalista Beppe Severgnini ha scritto a un lettore che gli faceva la stessa domanda: saranno di meno, perché una parte della merce sarà acquistata online. Quando ho letto questa frase, sono rimasto colpito da come una persona estranea al nostro mondo avesse compreso e sintetizzato quello sta accadendo. Io poi aggiungo – e l’ho detto a Servegnini, durante l’ultima edizione de Linkontro Nielsen – che per la stessa ragione saranno più piccoli; più focalizzati sul freschissimo, che probabilmente verrà attaccato meno dall’online; più esperienziali o se vogliamo ibridi, nel senso che nei negozi non si andrà solo per comprare. E poi saranno omnichannel – cioè capaci di essere punto di riferimento per l’acquisto fisico, ma anche per quello online – e sempre più monomarca”.
Il monomarca si ricollega al suo passato in Unes e al presente in Decò Italia, dove lavora alla marca privata. È una leva strategica nel nuovo scenario?
“È l’unica leva o comunque una delle poche a disposizione. Se faccio tutto il resto – negozio più piccolo, omnichannel, ecc. – e poi vendo online la pasta di un noto marchio industriale a 1 euro, quando il cliente va su Amazon e trova quella stessa referenza a 0,60 euro, penserà che sono un ladro. I prodotti di marca industriale confrontabili non fidelizzano. Il monomarca è una realtà consolidata in altri ambiti del commercio: Zara, H&M, Decathlon. Nell’elettronica di consumo il vecchio modello – basato su un assortimento di prodotti di marca industriale, che di sicuro qualche marketplace è in grado di proporre a un prezzo inferiore rispetto al negozio fisico – funziona sempre meno e le grandi insegne del settore progressivamente diventeranno come la Rinascente, che affitta i suoi spazi ai brand. In tanti comparti merceologici, il monomarca ti mette in parte al sicuro dall’online cattivo: se produco scarpe e il consumatore viene nel negozio monomarca della mia rete, sceglie il prodotto e poi va a casa a ordinarlo online per pagarlo meno, le scarpe comunque le ho fabbricate io. Per questo motivo molti produttori hanno avviato progetti di direct to consumer: hanno iniziato a comprendere l’importanza di conoscere il cliente finale e hanno capito che lo spazio sugli scaffali dei negozi sarà sempre meno e a condizioni sempre meno favorevoli”.
In conclusione, cosa dovrebbe fare la Gdo?
“Smettere di perdere tempo passando da una centrale d’acquisto all’altra. Smettere di concentrarsi su cose che – al netto di quello ci diciamo tra di noi, distributori e produttori – al consumatore non interessano. Ancora adesso a gran parte della Gdo sembra impossibile fare a meno delle promozioni: io ho vissuto 15 anni senza volantino e ho raddoppiato il fatturato. Il cambiamento che abbiamo davanti è sconvolgente, perché il primo obiettivo di Amazon non è vendere, ma conquistare il cliente, diventare il suo punto di riferimento in situazioni e momenti di acquisto e consumo diversi, dalla spesa – qualsiasi spesa – alla TV on demand. E quando un cliente entra in quella prospettiva, sapete come giudica i nostri negozi fisici? Vecchi. Sono più di vent’anni che parliamo di e-commerce, consolandoci con l’idea che finora nessuno ci ha guadagnato. Ma non sarà così all’infinito. Magari per vedere il collegamento tra tutte le attività e gli esperimenti dei pure players e comprenderne il disegno – i famosi puntini che si uniscono – ci vorranno altri dieci anni. Non sprechiamoli”.