
Bei tempi… Mi ricordo ancora tanti anni fa (eh sì, ne sono passati tanti), quando nelle aule universitarie, al corso di Economia della Aziende Commerciali, i professori ci spiegavano la differenza tra gruppo d’acquisto, unione volontarie e imprese succursaliste. Così come mi ricordo, appena laureato, quando ho avuto la possibilità di insegnare Retail Marketing in Bocconi, un tempo in cui cercavo di passare il concetto che non vi era più, già allora, una distinzione tra grande distribuzione e distribuzione organizzata e, conseguentemente, i termini “unione volontaria” e “gruppo d’acquisto” erano già divenuti vetusti.
Anche da un punto di vista semantico, tuttora io continuo a contestare il lessico che si usa attualmente nella nostra business community quando si disquisisce di distribuzione associata, usando i termini “centrale” e “periferia”. Non esiste alcuna centrale e non esiste alcuna derivazione periferica. I termini maggiormente consoni al posizionamento della distribuzione italiana sono “headquarter” (hq) e “impresa”: non solo, ma è l’impresa il dominus del retail e i diversi hq sono sostanzialmente a servizio delle imprese.
IL RUOLO STRATEGICO DELLE SUPERCENTRALI EUROPEE
Quali sono quindi gli attori che sostanzialmente sono a servizio dell’impresa all’interno della filiera? In primis, potrebbe esserci una super centrale europea, poi l’hq italiano e in ultima istanza l’impresa stessa che dà dei servizi ai propri punti di vendita o ai punti vendita che ha in affiliazione. Se osserviamo il panorama italiano, i principali gruppi (quelli che hanno una visione strategica) hanno una supercentrale europea che sostanzialmente ha il compito di raccordare le esigenze a livello internazionale, effettuando delle negoziazioni di “alto livello” con le grandi multinazionali al fine di equipararne la forza o comunque di crearne i presupposti con incontri Top2Top.
NUOVA LINFA ALLA DISTRIBUZIONE
Tornando a livello nazionale, c’è ancora vita per gli hq o, come purtroppo vengono ancora chiamati, per le centrali? Assolutamente sì. Anzi, sempre di più, gli hq della distribuzione italiana avranno forza e avranno una nuova vita, certamente gestendone con intelligenza l’evoluzione. Innanzitutto, occorre tassativamente dismettere l’idea che le sedi nazionali esistano solo per fare serrate negoziazioni prodromiche a stilare contratti nazionali o per gestire soltanto la proposta dei listini industriali o stilare piani promozionali nazionali.
Certamente, queste tre attività hanno molta importanza e sono un po’ la conditio sine qua non dei servizi commerciali. Ma non bastano più: in un periodo storico in cui le economie di scala e le sinergie dettano legge per recuperare drammaticamente efficienza (e ciò accade in tutti i settori, dalla banche, alle assicurazioni, dall’automotive al fashion, ecc.), tutte le sedi si sono attrezzate o si stanno attrezzando, cum grano salis, per ampliare il perimetro dei servizi, in ogni ambito: a iniziare dal marketing, poi in ambito amministrativo, informatico (si pensi alla cybersicurezza), alla formazione; per non parlare della marca del distributore, dell’area digital, e poi i servizi definiti accessori (contratti nazionali per la telefonia, l’energia elettrica, le attrezzature, le assicurazioni, i materiali di punto vendita, ecc.).
IL VALORE DELL’UNIONE
Vi è peraltro una corrente di pensiero, che inneggia all’autonomia, ipotizzando che questa possa garantire maggiore libertà, ma è una mera mistificazione: la libertà incrementale si ottiene infatti lasciando a un istituto “centralizzato” l’esercizio di funzioni maggiormente vocate a economie di scala. La magia invece sta nel riuscire ad assecondare le istanze delle singole imprese/insegne con questa nuova era della centralizzazione: non è infatti vero che non si può armonizzare questa importante dicotomia.
Ci vuole sicuramente capacità di lettura dei desiderata delle imprese a cui si offrono i servizi ad alto valore aggiunto e ulteriore capacità di differenziare l’approccio a seconda delle capacità delle singole imprese. La reciproca positiva integrazione di tutte queste aspettative potrebbe far nascere una sorta di nuovo sincretismo culturale del retail italiano.