Con i suoi 207.000 ettari tra Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo e Molise, pari al 21% del totale olivicolo nazionale, l’olivicoltura delle regioni dell’Appennino può contribuire al rilancio della produzione nazionale. Sarebbe sufficiente il ritorno alla piena efficienza produttiva di almeno 25.000 ettari di oliveti, attualmente in condizioni di totale abbandono o con una gestione non ottimale presenti nelle regioni dell’Italia centrale.
A dirlo è l’Accademia nazionale dell’olivo e dell’olio, che ha organizzato un convegno a Casoli, in provincia di Chieti, dedicato al tema della competitività e resilienza dei sistemi olivicoli tradizionali dell’Appennino. La stessa Accademia stima che solo in Abruzzo 5.000 ettari di oliveti potrebbero essere oggetto di un piano di ristrutturazione e riconversione tale da aumentare la produzione media annua del +40% nel giro di cinque anni.
I NUMERI DELL’OLIO IN ITALIA E NEL MONDO
Il convegno è stato l’occasione per una ricognizione su stato e prospettive della filiera olivicolo-olearia italiana, che continua a perdere terreno nei confronti dei suoi competitori a livello internazionale. Se negli anni Settanta l’Italia era il primo Paese produttore di olio d’oliva al mondo, oggi occupa la terza posizione all’interno dell’Unione Europea con 240.000 tonnellate (nel 2022) contro le 330.000 della Grecia e le 680.000 della Spagna.
A livello internazionale, la situazione peggiora ulteriormente. L’Italia è infatti scivolata al quarto posto dopo la Turchia che, sempre nel 2022, ha registrato una produzione di 275.000 tonnellate. In prospettiva, considerando gli ingenti investimenti nel settore olivicolo di Tunisia, Marocco e Portogallo, l’Italia potrebbe perdere ulteriori posizioni in un settore nel quale ha ricoperto da sempre un ruolo di assoluta eccellenza.
L’anno scorso il tasso di auto-approvvigionamento ha raggiunto il minimo storico: la produzione nazionale ha infatti coperto appena il 48,2% del consumo. Le importazioni hanno raggiunto il massimo di sempre con 2,2 miliardi di euro, attestandosi ad un livello superiore al valore delle esportazioni che si sono fermate a 1,9 miliardi di euro.
POSSIBILI SOLUZIONI
Come invertire la rotta? Nel convegno di Casoli sono state affrontate le problematiche tecniche, agronomiche e commerciali dei sistemi olivicoli caratterizzati da spinta frammentazione fondiaria, localizzazione prevalente in aree diverse dalla pianura irrigua, un elevato valore paesaggistico ed ambientale, e composti prevalentemente da varietà autoctone. La sfida per il prossimo futuro sarà quella di puntare sulla riconversione e ristrutturazione degli impianti, favorendo la meccanizzazione, l’incremento delle dimensioni delle aziende olivicole, la razionalizzazione delle operazioni colturali e un’attenzione costante al miglioramento qualitativo, puntando sulle varietà tipiche del territorio.
Le condizioni per la diffusione sul territorio di modelli aziendali di successo non mancano. L’olivicoltura delle colline appenniniche presenta abbondanti superfici e un patrimonio di varietà ad alto valore commerciale. Sarà determinante cogliere le opportunità provenienti dalla riforma della Pac, con gli eco-schemi e l’architettura verde, dalla strategia “Farm to Fork”, con la spinta verso sistemi produttivi sostenibili, e dal Pnrr con misure di sostegno specifiche come il rinnovamento dei frantoi. In questo scenario sarebbe possibile innescare un percorso virtuoso per una nuova e moderna imprenditorialità olivicolo-olearia che sappia cogliere le dinamiche di mercato, tra interesse per la qualità e la distintività delle produzioni; con l’obiettivo di garantire una maggiore redditività alla filiera ed un futuro roseo al comparto.