Dopo la ripartenza del 2022, la birra inverte il trend nel 2023 e a metà anno registra dati preoccupanti, che mettono a rischio l’occupazione e il valore aggiunto che la sua filiera porta al Paese. A sottolinearlo è l’analisi di Osservatorio Birra nel settimo rapporto “La creazione di valore condiviso del settore della birra in Italia”, realizzato da Althesys. Secondo lo studio, l’effetto moltiplicatore del valore che cresce per ogni passaggio nella filiera brassicola vale purtroppo anche “al contrario”. Se entrano in crisi i produttori, benché rappresentino una minima parte del valore condiviso che la birra porta al Paese, a risentirne è tutta la filiera. A tutto questo rischia di aggiungersi presto anche un nuovo aumento delle accise sulla birra.
La crisi del settore, tra aumento dei costi di produzione e riduzione del potere d’acquisto degli italiani, sta mettendo sotto pressione tutta la filiera: agricoltura, trasformazione, produzione, logistica, trasporti, Gdo e ristorazione. Il rischio è di azzerare quel “fenomeno birra” che in Italia negli ultimi 15 anni ha portato questo prodotto al centro della gastronomia e della socialità.
I NUMERI DELLA FILIERA
Secondo Osservatorio Birra, la filiera della birra nel 2022 ha sfondato per la prima volta il tetto dei 10 miliardi di euro di valore condiviso (10,2 miliardi, +9,2% rispetto all’ottimo 2021). La crescita del +4,1% in volume, i 3,2 punti percentuali in più conquistati dall’Horeca (dal 32,6% al 35,8%), la crescita dell’8% degli occupati (oltre 103.000 dipendenti lungo la filiera), e i 4,3 miliardi pagati al fisco (di cui 707 milioni di euro di accise) sono il quadro del contributo del settore alla crescita del Pil.
Dallo studio emerge come la birra non porta ricchezza solo a chi la produce. Solo l’1,3% dei 10,2 miliardi circa di valore condiviso è “trattenuto” dai birrifici, il resto viene distribuito ai lavoratori della filiera e allo Stato. Infatti, ogni euro di birra venduta ne ha generati 6,8 lungo l’intera filiera. Ne beneficiano soprattutto le fasi a valle (distribuzione e vendita, con 8.102 milioni di euro), con un cospicuo contributo alle casse dello Stato: quattro miliardi e 278,8 milioni di euro tra Iva, imposte e contributi sul reddito e sul lavoro. Inoltre, la filiera ha distribuito 2,8 miliardi di euro di salari, dando lavoro a oltre 100.000 famiglie, generando circa 30 occupati per ogni addetto alla produzione.
LA FRENATA NEL 2023
Dopo un 2022 con dati di vendita positivi pur attenuati da più di un campanello di allarme – dal boom dei costi di produzione (+50% l’incidenza di materie prime ed energia sul valore della produzione) alla crescita del +9,9% delle importazioni di birra – nel primo semestre 2023 la tendenza si è del tutto invertita. Il peso e gli effetti dell’aumento dei prezzi sul food&beverage conseguenti alla forte dinamica inflattiva hanno improvvisamente tolto energia alla “locomotiva birra”. Il primo semestre di quest’anno registra, per la prima volta dopo due anni, un calo del valore condiviso di circa il -3%, pari a circa 120 milioni di euro.
IL FUORI CASA
E la crisi della birra rischia di toccare anche l’agroalimentare nel suo complesso, a partire dai 350.000 punti di consumo del fuori casa. Uno studio Osservatorio Birra/Piepoli dimostra infatti che quando al ristorante, in pizzeria, al pub o in trattoria si ordina una birra, otto volte su 10 viene accompagnata da piatti della tradizione agroalimentare italiana.
IL RISCHIO ACCISE
Un aumento di pochi centesimi di euro dell’accisa sulla birra finirebbe, secondo l’Osservatorio, per far male a tutti. Anche al consumatore. Colpisce i produttori (già alle prese con costi sempre più insostenibili), riduce i margini degli esercenti, e ricade anche sul consumatore per l’aggravio dell’Iva. Infatti, in una birra alla spina circa 80 centesimi sono imputabili all’accisa, mentre su una bottiglia da 0,66 (in offerta), il formato più venduto in Italia nei supermercati, questa tassa incide per circa il 40% sul prezzo di vendita.
La birra è del resto l’unica bevanda da pasto gravata da accise. In passato lo Stato, quando le ha abbassate, ha incassato di più: +27% di entrate erariali nel 2017-2019 rispetto al triennio precedente, che aveva visto gli aumenti di questo tipo di tassa. Inoltre, con una minor pressione fiscale i produttori sono stati in grado di fare investimenti e lanciare nuovi prodotti, generando crescita e quindi gettito.