Benché le pere possano essere considerate un frutto ambasciatore dell’Italia sulle tavole d’Europa, al momento stanno rischiando l’estinzione o, quanto meno, una drastica riduzione produttiva, peraltro già in atto, e il sorpasso da parte delle importazioni. La crisi è profonda e coinvolge soprattutto le grandi aree frutticole del Nord, in primo luogo l’Emilia-Romagna che con le province di Modena, Ferrara, Bologna e Ravenna realizza il 56% del prodotto nazionale attraverso una superficie di più di13.000 ettari. I problemi riguardano, comunque, anche le altre zone di produzione: Veneto, Piemonte, Lombardia e Friuli Venezia Giulia.
BILANCIA COMMERCIALE IN TERRITORIO NEGATIVO
Nel 2018 la bilancia commerciale era in attivo per 90.000 tonnellate, ma già a fine 2022 il saldo tra import ed export aveva fatto registrare un -48%, mentre le esportazioni sono finite in caduta libera con un -62% (fonte: Nomisma). Nel 2023 la perdita economica ha raggiunto i 340 milioni di euro, considerando anche il calo di qualità che in molti casi ha fatto inevitabilmente abbassare i prezzi al consumo. Intanto, i costi di produzione si sono alzati mediamente del +17 per cento. Al tempo stesso Spagna, Argentina, Sud Africa hanno visto salire i rispettivi volumi d’affari del +70 per cento.
IL CROLLO PRODUTTIVO DEL 2023
Secondo i dati di Apo Conerpo, nel 2023 la produzione italiana ha registrato un crollo del -75% rispetto al 2018, ma la crisi viene da lontano perché in 12 anni il calo delle superfici coltivate ha raggiunto un -35 per cento. Dodici anni fa si producevano in Italia 926.000 tonnellate di pere, mentre nell’anno appena conclusonon si è andati oltre le 180.000 tonnellate. Nonostante questo, l’Italia rimane ancora il top player europeo; ma il calo strutturale continua da anni, e sono andati perduti 15.000 ettari.
LE VARIETÀ DI PERE A RISCHIO ABBANDONO
Confagricoltura lancia l’allarme: “Per i produttori in 10 anni tutte le voci di spesa sono lievitate. Il costo unitario per produrre un chilo di pere è passato da 0,45 a 1,15 euro per tutti i fattori che conosciamo, compresi gli incrementi dei prezzi dei prodotti fitosanitari. Chi ha risorse finanziarie spesso si sposta su altre colture meno rischiose, altri sono costretti a mettere in vendita l’attività e poche aziende investono in nuovi impianti. Solitamente sono quelle che vogliono mantenere tutte le specie impiegando il know how in una produzione diversificata. In questi casi è quasi certo l’abbandono della Abate Fétel a favore di altre varietà meno remunerative ma più resistenti, come la William”.