L’impoverimento delle famiglie italiane – ossia il calo costante del reddito disponibile – è arrivato ormai anche sulle tavole: lo conferma la flessione tra il -4% e il -8% delle vendite di prodotti freschi a livello nazionale nel primo trimestre 2013. Disegna bene lo scenario attuale della spesa alimentare la ricerca “Gli italiani e i consumi alimentari nel fuoco della crisi”, presentata da Enrico Finzi, presidente di Astraricerche, nel primo dibattito del ciclo di incontri “Granarolo per il domani”, ideato dal gruppo lattiero-caseario per promuovere una crescita sostenibile. I dati della ricerca mostrano la difficile situazione di quasi la metà della popolazione del Paese, che ha ridotto i consumi alimentari nell’ultimo anno, con un terzo della popolazione in particolare sofferenza: sono sopra i 34 anni, residenti in Lazio e al Sud oltre che nei piccoli comuni, per lo più lavoratori autonomi, salariati e ‘inattivi’ (pensionati, casalinghe, studenti, disoccupati).
La crisi ‘picchia duro’ su molti prodotti di consumo quotidiano, delle 29 tipologie di prodotti considerati solo per 2 (frutta e specialmente verdure) è positivo il saldo tra chi aumenta e chi cala dalla primavera 2012. Per tutti gli altri prodotti, quelli in calo battono quelli in crescita: di poco per pasta, uova, latte ad alta digeribilità, latte uht, acqua minerale, caffè, latte fresco, integratori alimentari; di più per cibi dietetici, pane, olio, yogurt; molto per surgelati, biscotti, formaggi, pesci, condimenti/sughi, vino; moltissimo per birra, cracker/snack salati, merendine, cioccolata, bevande gassate; ancora di più per gelati industriali, carne rossa, dolci/torte.
In parallelo, molti italiani hanno messo in campo vere e proprie strategie di sopravvivenza: tanto da incidere sui modelli di consumo.
Nell’ultimo anno, i consumatori dichiarano di dare maggior importanza a certi fattori: ai prezzi (80%) e anche alla sicurezza (62%), all’origine (57%), alla qualità (50%) del food & beverage. Ridurre lo spreco alimentare è tuttavia la strategia più condivisa in tempo di crisi: ben il 90% riferisce d’un maggior impegno proprio e dei propri familiari nel ridurre gli sprechi – con i maschi e i giovani lievemente sotto media. Come? Acquistando meno prodotti (52%), conservando e utilizzando gli avanzi (50%), acquistando confezioni più piccole (20%), facendo porzioni più piccole (16%) oltre che con molte altre tecniche minori.
Di più, è in atto un “ritorno a casa”: la gente mangia assai di più in casa (64%) e meno al bar (67%) o al ristorante (66%) o in mensa (42%); preferisce i prodotti scontati/in promozione (60%); ‘taglia’ i cibi etnici (37%); recupera cibi e ricette tradizionali (29%); mangia e beve meno prodotti bio (21%) o del commercio equosolidale (20%).
Non manca chi dichiara di saltare alcuni pasti (18%); di fare meno da mangiare per puro piacere (13%); e persino di ridurre il numero delle porzioni ai pasti (2%).
Anche in tempo di crisi, la qualità del cibo rappresenta anche un aspetto importante per l’alimentazione degli italiani. I nostri connazionali appaiono disposti a ridurre – volenti o nolenti – le quantità, ma cercano anche di non cedere sulla qualità di quel che mangiano e bevono: il 61% è riuscito nell’ultimo anno a difenderla e l’11% addirittura a migliorarla, col restante 28% che è stato costretto a ridurla (nella metà dei casi solo per taluni prodotti). E anche per i prossimi dodici mesi il 66% ipotizza stabilità, il 14% incremento e il 20% decremento (prevalentemente non generalizzato).
Il buon cibo rimane comunque un aspetto centrale per gli italiani: per il 44% senza riserve e per il 46% con preoccupazioni economiche e con timori circa la sicurezza alimentare. Per loro, l’alimentazione ha un ruolo decisivo per la salute (75%), la prevenzione delle malattie (63%), l’allegria e il buon umore (54%), la cura delle malattie (54%), l’efficienza nel lavoro e nello studio (45%), la felicità (44%), la sessualità (32%), le relazioni con gli altri (31%), il carattere e la personalità (28%).
E molti sono gli italiani che condividono l’introduzione di un’etichetta che evidenzi la filiera italiana degli alimenti. Il 52% del campione sostiene di conoscere il significato del termine ‘filiera’ e il favore degli intervistati per la filiera solo italiana risulta dominante: per il 65% forte e per il 32% medio (oppure forte ma solo per alcuni prodotti).
Ne consegue una posizione di grande favore del 92% per un simbolo che indichi che un prodotto alimentare o una bevanda sono prodotti solo in Italia e solo con materie prime italiane: il 78% lo vorrebbe per tutti i prodotti, il 14% solo per alcuni.
Infine, il 54% degli intervistati (pari a 20,9 milioni di italiani) si dice disposto a pagare un po’ di più un prodotto connotato da un simbolo o icona di garanzia che indichi che un prodotto alimentare o una bevanda sono prodotti solo in Italia e solo con materie prime italiane.
In occasione dell’incontro, Granarolo-Federconsumatori hanno annunciato un protocollo d’intesa in collaborazione con il Mipaaf per la divulgazione del valore della filiera italiana
“Granarolo – afferma Gianpiero Calzolari, presidente di Granarolo – vuole affrontare pubblicamente con il mondo delle istituzioni, delle imprese, delle associazioni il tema dell’urgenza delle riforme necessarie alla protezione delle filiere italiane per il rilancio dell’economia del Paese. E’ evidente la difficoltà in cui si trova il Paese, ma allo stesso tempo è rilevante il dato con cui gli italiani riconoscono il valore della qualità della filiera italiana e del cibo made in Italy. Va fatta informazione sulle caratteristiche dei prodotti, va supportato il consumatore nei suoi nuovi comportamenti “antispreco” e noi stessi come azienda siamo andati in questa direzione con il lancio di alcuni prodotti, (ad esempio la bottiglia di latte da 1 litro e mezzo, la nostra bottiglia anticrisi) e con uno sforzo volto al miglioramento dell’etichettatura dei nostri prodotti”.
“Siamo anche, e soprattutto, quello che non mangiamo – ricorda Andrea Segrè, fondatore e presidente di Last Minute Market, direttore del Dipartimento di Scienze e tecnologie agro-alimentari dell’Università di Bologna – Con buona pace di Feuerbach. Perché nei Paesi più ‘ricchi’ la parte preponderante degli sprechi alimentari avviene a livello domestico, e almeno il 60% di questo spreco potrebbe essere evitato. In Italia, secondo i dati elaborati da Last Minute Market e dal suo osservatorio Waste Watcher, lo spreco alimentare rappresenta l’1,19% del pil (circa 18,5 miliardi riferiti al 2011) e ‘soltanto’ lo 0,23% si colloca nella filiera di produzione (agricoltura), trasformazione (industria alimentare), distribuzione (grande e piccola) e ristorazione (collettiva). La parte del leone è tutta a livello domestico e rappresenta lo 0,96% del pil”.
Consumi, gli italiani e la dieta della crisi
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