L’hanno intitolata ‘smarketing’ e non a caso. Nel corso dell’ultima convention organizzata dal gruppo Sigma per fare il punto sui risultati della catena e sullo scenario italiano del settore distributivo, si è parlato solo di questo: del coraggio di rompere gli schemi, di cambiare i paradigmi, di sperimentare strade nuove. L’inversione di rotta sta diventando un tema ricorrente tra le imprese del largo consumo, siano esse del mondo dell’industria o della distribuzione, quasi ci fosse stata un’improvvisa e collettiva presa di coscienza che gli sconsolanti risultati economici degli ultimi anni non potevano più essere imputati solo alla crisi economica. Una svolta epocale, a suo modo. Se il tracollo del marketing non è più ascrivibile solo al calo delle risorse, è evidente che qualche riflessione aggiuntiva sulla necessità di rivedere i propri modelli di business va assolutamente messa in campo. A ricordarlo, con la ‘brutalità’ che solo i numeri sanno avere, ci ha pensato, proprio durante la convention, Enrico Finzi. Il presidente di Astra Ricerche ha snocciolato un rosario di default che non ammette repliche: l’88% degli italiani dichiara di non apprezzare le campagne di advertising in circolazione; solo il 17% è in grado di indicare un prodotto che sappia dargli ‘felicità’ e solo il 9% indica come ‘felicitante’ qualche punto vendita. E la fiducia nelle marche è scesa al 36% (dal 76% degli anni d’oro).
Da qui la ‘call to action’ verso lo studio di nuovi modelli che, a quanto ci sembra, sono tutti molto orientati a offrire al consumatore diverse modalità di utilizzo e fruizione dei prodotti, intervenendo quindi sulla parte finale della filiera, sul momento di acquisto. D’altra parte, come annota Daniele Tirelli, presidente di Popai, nella prefazione del saggio ‘Retail experience in Usa’, la qualità di un prodotto “da oggettiva diviene qualità percepita in funzione del luogo e delle modalità con cui il prodotto viene proposto ai clienti di ogni tipo di negozio. Questa è la ragione per la quale il time to market di molte innovazioni dipende vitalmente dall’esistenza e dall’efficienza di reti distributive in grado di spiegarla e valorizzarla. (…) Il miglior prodotto del mondo sarà un fallimento se non raggiungerà la più efficiente e ramificata rete distributiva”. Fari accesi sulla distribuzione, quindi. Guarda caso, colossi come Unilever stanno testando con grande successo anche esperienze di retail dirette, che potrebbero trasformarsi in grandi catene in franchising. “Come reagiamo alla crisi? Ricercando in modo ossessivo nuove opportunità di business – ci ha confessato Angelo Trocchia, presidente della filiale italiana –. Io credo che in un momento di crisi come questo ogni azienda abbia due scelte: o si mette in difesa o cerca opportunità di crescita diverse. Noi abbiamo scelto di cercare nuove opportunità. Il Magnum store della stazione centrale di Milano è una di queste: in meno di 2 mesi abbiamo fatturato 140mila euro”. Quanto ai modelli da seguire per realizzare format distributivi davvero innovativi e capaci di trasferire valore aggiunto al prodotto in vendita, industria e distribuzione non possono che puntare gli occhi oltreoceano dove, ricorda Tirelli, da sempre vendere è un’arte. Nel suo saggio gli esempi che possono suggerire spunti interessanti sono moltissimi. Colpisce, per esempio, la filosofia di Bristol Farms, store alla periferia di Los Angeles, di scegliere location che ad altri sembravano suicide: in mezzo a verdi collinette, con bassa densità geografica. L’idea geniale, in tempi in cui deflagrava la guerra dei prezzi, è stata quella di allontanarsi dall’arena competitiva proponendo di fare la spesa in luogo piacevole e rilassato, senza lo stress di inseguire l’ultimo sconto, dove però la qualità del fresco era imbattibile e la difesa della biodiversità diventava la risposta a un target crescente di clienti eco attenti. La proposta di antiche varietà vegetali minacciate dalle produzioni di massa e di cultivar rari strappati dall’oblio ha contribuito in modo importante a regalare all’insegna una distintività che ha pagato con un successo commerciale straordinario. Così come paga l’approccio olistico di un’insegna come Draeger’s, sulla costa ovest della San Francisco Bay. Il manager-gastronomo alla guida del gruppo di famiglia è partito dal concetto che l’alimentazione e la cucina fossero soprattutto cultura: “Se vi piace gustare qualche specialità, probabilmente ne vorrete conoscere l’origine, la preparazione e la composizione”. Da qui la mission, riportata da Tirelli, di “coprire commercialmente tutte le aree legate all’alimentazione, dagli accessori alla ristorazione, dalla scuola di cucina alla libreria specializzata in gastronomia”. Un approccio ormai molto frequentato negli Usa, ma ancora sottoutilizzato nei nostri store. Così come ci sarebbe da imparare molto sulla gestione dei freschi da un’insegna come Westborn Market nel Michigan, che al di là dell’originalità delle strutture espositive e dell’ampiezza dell’offerta (il visitatore italiano può trovare una varietà di salumi e formaggi difficile da reperire anche sul nostro mercato!), ha lavorato sulla valorizzazione del freschissimo e della quinta gamma arrivando a offrire scenografici party tray e ceste di frutta da regalo personalizzate per ogni occasione. Non da ultimo, il reparto di piante e fiori con un assortimento che supera anche quello dei nostro negozi specializzati, nella convinzione che “i fiori sono per antonomasia parte del freschissimo”. Leggendo questi reportage la sensazione è che davvero il malessere dei nostri consumatori potrebbe legarsi anche a una sorta di ‘stanchezza dell’offerta’ che si è avvitata da tempo (quasi) solo sulla battaglia dei prezzi e circoscrive le sue innovazioni alla convenienza. Fare di più si può. E chi ci ha provato al di là dell’oceano dice che è anche molto remunerativo. Nonostante la crisi.
Maria Cristina Alfieri
Quel passo in più che dobbiamo fare
© Riproduzione riservata