In questa interminabile fase di navigazione a vista, dove le imprese procedono caute, chiedendosi se i primi deboli barlumi di ripresa siano miraggi o realtà, iniziano a levarsi da più parti voci che invocano un keynesiano intervento del Governo a sostegno dell’economia reale. Di fronte alla domanda più semplice e immediata “che cosa ci serve per ripartire?”, le risposte si raggruppano spontaneamente su due fronti cruciali: la necessità di sostenere la domanda dei consumatori da un lato e, dall’altro, quella altrettanto urgente di semplificare la vita di chi fa impresa. Non è un caso che, in forme e contesti diversi, a farsi portavoce delle due richieste siano stati, in tempi recenti, i rappresentanti di due catene distributive d’eccellenza del nostro Paese (la prima per grandezza e la prima per redditività), che quotidianamente si misurano sia con la difficoltà di riempire il carrello degli italiani, sia con quella di destreggiarsi tra i balzelli burocratici che ostacolano il cammino di chi vuole crescere ancora. Sul fronte della domanda, a esporsi è stato Marco Pedroni, presidente di Coop Italia, durante la tradizionale presentazione del rapporto “Consumi & distribuzione” con cui la catena fotografa di anno in anno come cambia la spesa made in Italy. “Non ci sono ancora i presupposti per essere ottimisti – ha spiegato Pedroni -: più della metà delle famiglie italiane lamenta una situazione economica che continua a peggiorare e noi non registriamo più solo un cambiamento del modo di fare la spesa (variando il mix di prodotti per spendere meno), ma un vero e proprio calo dei volumi: segno che la gente di fatto consuma meno”. Da qui l’appello di Coop Italia: “Senza un’azione del Governo a sostegno della domanda interna e un forte impegno degli operatori economici più importanti, a partire dalle banche, chiamati a sostenere le famiglie, non ci sarà una ripresa significativa del Paese”. L’iniezione ricostituente invocata dal primo distributore italiano per risollevare il mercato interno si esprime in una lunga ricetta, con ‘principi attivi’ che vanno dalla redistribuzione a favore delle parti deboli al rilancio di quelle liberalizzazioni che in passato hanno prodotto una significativa riduzione dei prezzi. “E non bastano più neanche le misure pensate solo per i ceti bassi – precisa Pedroni – perché ormai a essere in difficoltà è anche il ceto medio”, tanto che l’81% della popolazione italiana dichiara di aver cambiato le abitudini di consumo per risparmiare sulla spesa, mentre in Europa la media di chi ha ridimensionato gli acquisti arriva a malapena al 63 per cento. Ma il sostegno alla domanda deve andare a braccetto con quello alle imprese che vogliono e possono creare valore. A ribadirlo, con i toni accesi di una denuncia, una lettera aperta di Bernardo Caprotti pubblicata sul Corriere della Sera lo scorso 11 settembre: “Per realizzare un punto vendita occorrono mediamente da otto a quattordici anni – scrive il patron di Esselunga -. Ma per Legnano ventiquattro; mentre a Firenze forse apriremo l’anno prossimo un Esselunga di là d’Arno, un’iniziativa partita nel 1970! Così, ultimamente, abbiamo cancellato ogni nuovo progetto. Ecco (…) la pallida risposta di un’azienda che di problemi ne ha troppi, che si avventura ogni giorno in una giungla di norme, regole, controlli, ingiunzioni, termini, divieti che cambiano continuamente col cambiare delle leggi, dei funzionari, dei potenti. Uno slalom gigante con le porte che vengono spostate mentre scendi. Un’azienda affondata nelle sabbie mobili italiane”. Al netto della polemica politica, resta il grido di un imprenditore nel quale finiscono per riconoscersi tutte quelle aziende che, secondo l’ultimo rapporto di Unioncamere, nel 2012 hanno pagato 22 miliardi e 424 milioni per comunicazioni e adempimenti amministrativi, con un rincaro di 236 milioni rispetto all’anno prima. Non solo. Come ricorda Sergio Rizzo, sempre sulle pagine del Corriere della Sera, secondo il rapporto Doing business della Banca mondiale, il pagamento delle imposte in Italia richiede al mondo produttivo ben 269 ore lavorative, quasi il triplo rispetto a Francia, Svezia o Gran Bretagna. Se a questo si aggiungono i tempi biblici del contenzioso commerciale e quelli per ricevere un permesso edilizio, si ha un’idea di quanto sia urgente varare riforme e nuove misure per estrarre dalle ‘sabbie mobili’ chi ha ancora risorse e progettualità.
Un bel banco di prova potrebbe essere l’imminente, titanica, avventura bolognese dell’infaticabile Oscar Farinetti. La scommessa è chiudere l’Expo 2015 con l’apertura di Eatalyworld, un parco agroalimentare che idealmente raccolga in modo permanente il testimone dell’esposizione universale. Una Disneyworld del cibo che occuperà un’area di 80mila mq e richiederà 100 milioni di investimento (50 ancora da trovare), creando circa 1.500 nuovi posti di lavoro (e 5mila di indotto) e attirando, secondo le stime più ottimistiche, ben 10 milioni di visitatori l’anno. Serviranno infrastrutture adeguate, permessi, concessioni. Servirà efficienza. Una burocrazia veloce e istituzioni collaborative. Essere all’altezza di un progetto così potrebbe essere per l’Italia un bel segnale. E soprattutto dimostrerebbe che, tutto sommato, vale ancora la pena investire e credere in questo Paese. Maria Cristina Alfieri
Che cosa ci serve per ripartire
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