Certe coincidenze fanno riflettere. Proprio mentre arrivano i dati che dimostrano come, per la prima volta da anni, la marca del distributore abbia interrotto la sua crescita, un paio di catene distributive (Md e Auchan) lanciano un’iniziativa senza precedenti, svelando ai consumatori i nomi dei produttori (di marca) delle loro private label. In particolare, l’insegna discount fa circolare un volantino dal titolo esplicativo ‘Lo sapevi che dietro i nostri prodotti ci sono grandi e importanti aziende italiane?” e poi giù con l’elenco di nomi blasonati che da sempre nella testa dei consumatori sono sinonimo di latte, salumi, merendine & co. Stessa – o quasi – iniziativa in un singolo punto vendita Auchan, che ha esposto cartelloni informativi altrettanto dettagliati: “lo sai che i prodotti Auchan sono fatti da…” e anche qui segue l’elenco di prestigiosi copacker. Al netto della tensione che questa operazione di outing ha creato proprio in un momento in cui, invece, sarebbe stata auspicabile una maggiore collaborazione tra gli anelli della filiera per risollevare un mercato più stanco che mai (c’era proprio bisogno di creare ulteriori fronti di tensione?) e al di là anche dei dubbi sulla correttezza di un’operazione che in qualche modo prevarica la facoltà di ogni impresa di decidere come, dove e quando comunicare ai consumatori il suo brand, quello che fa più riflettere, a nostro avviso, è il ‘tempismo’ di questa scelta di marketing. Perché arriva proprio quando per le pl (per alcune, perlomeno) si profila una battuta d’arresto? Non è un clamoroso segno di debolezza il fatto che una private label, per accreditarsi agli occhi dei consumatori, debba esibire i marchi dei suoi copacker? La garanzia di qualità non dovrebbe darla l’insegna stessa? E ancora: che fine ha fatto l’orgoglio con il quale, nella scorsa edizione di Marca (parliamo solo di un anno fa!) i retailer avevano dichiarato di non voler più chiamare il loro prodotto ‘private label’, ma marca del distributore, rivendicando la capacità e volontà di essere Brand? Invocare l’industria di marca per legittimare la propria insegna è, a nostro avviso, un doloroso autogol e anche una dichiarazione implicita che, per qualcuno, il calo del prodotto a marchio incomincia ad essere davvero preoccupante. Non a caso, è tutt’altra la strategia di chi questo calo lo teme meno e il percorso per diventare ‘marca’ lo sta percorrendo con rinnovato slancio, da Coop a Esselunga (che all’estremo opposto non gradisce che i copacker pubblicizzino troppo la loro collaborazione con la catena) da Sigma a Selex, a Conad. Quest’ultima, per esempio, nel recente incontro di fine anno con la stampa ha dichiarato la volontà di investire ulteriormente sul suo brand, che sarà esteso a molte più referenze nel comparto del fresco e freschissimo (Conad è la catena che sul mercato italiano ha la maggiore incidenza di fresco nel punto vendita) e sarà oggetto di una campagna di comunicazione degna delle migliori griffe: regia d’autore (Stef Viaene), musica classica (Domenico Cimarosa interpretato da Cecilia Bartoli), eleganza, stile, distintività. Ovviamente aumenteranno gli investimenti in advertising, nonostante il clima non sia dei migliori (solo a Natale le stime parlano di un 1,8-2,8% di acquisti in meno, vale a dire 200-300 milioni di euro e il 2015 non lascia intravedere per ora niente di meglio). Piccolo dettaglio: la marca privata di Conad è cresciuta del 156% negli ultimi dieci anni, oggi ha una quota del 27,2% (contro il 19,1% del mercato italiano) e il giro d’affari è salito del 3,8% rispetto al 2013 attestandosi sui 2,45 miliardi di euro. Coincidenza?
Private label, attenti agli autogol
Fa discutere l'iniziativa senza precedenti di un punto vendita Auchan e Md di rivelare ai consumatori i nomi dei propri copacker per legittimare la propria insegna
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