Le recenti operazioni finanziarie in Salov e Drogheria & Alimentari hanno suscitato qualche preoccupazione, così come destano apprensione altre realtà che stanno entrando nel mirino degli investitori esteri. La nostra sensazione, tuttavia, è che spesso i dibattiti sull’italianità delle nostre imprese partano da una domanda di fondo mal posta: il problema non dovrebbe essere quello di capire se sia un bene o meno che le grandi multinazionali estere rilevino alcuni dei nostri brand, ma se queste acquisizioni facciano o meno il bene dei brand in questione e (benchè possa suonare paradossale) del made in Italy nel suo insieme. Per capire meglio di cosa stiamo parlando, basta riflettere sulla case history di Nestlé e Sanpellegrino. L’ha recentemente ricordata, durante un bel dibattito in sede Indicod Ecr, Stefano Agostini, numero uno del water brand di casa Nestlè. Sentir parlare di ‘difesa dell’italianità’ il rappresentante di una multinazionale svizzera può risultare sicuramente spiazzante, ma diventa interessante quando si sente dire che il colosso di Vevey ha rinunciato a mettere il brand Sanpellegrino nel paniere di prodotti Nestlé presentati ai retailer in giro per il mondo, per salvaguardare la sua peculiarità di prodotto italiano, scegliendo quindi la via più tortuosa (ma anche più virtuosa) di creare una rete distributiva e commerciale ad hoc, che seguisse logiche rispettose dei valori del marchio. La potenza di fuoco del gruppo svizzero è stata messa al servizio di un brand che su molti mercati ha tirato la volata a tanti altri prodotti alimentari italiani. Si è trattato di un rischio o di un’opportunità? Certo, non tutte le multinazionali seguono le stesse logiche, ma oggi ci sono due fattori che a nostro avviso lasciano ben sperare nel fatto che il ‘Sanpellegrino style’ venga replicato. Il primo è che, in una mera logica di convenienza, puntare sui concetti di premium e di made in Italy si sta rivelando economicamente vantaggioso su tutti i mercati internazionali (che hanno ‘fame’ tanto di prodotti top, quanto di italianità). Il secondo è che il cammino di sostenibilità sociale che, vox populi, hanno intrapreso tutti i colossi del largo consumo (costantemente sotto la lente d’ingrandimento delle community di consumatori) impone loro di creare valore sul territorio in cui operano, tutelando il contesto sociale e ambientale, creando occupazione e ricchezza. Non è un caso che colossi come L’Orèal e P&G abbiano rispettivamente in Italia il più grande stabilimento produttivo al mondo e un centro ricerca tra i più avanzati a livello europeo. E non è raro sentir dire ai numeri uno di queste realtà che la loro mission prioritaria è dirottare in Italia gli investimenti della casa madre. Tornando a Salov e Drogheria & Alimentari, l’auspicio è che la presenza delle famiglie di origine voluta dai partner esteri nei rispettivi gruppi dopo il cambio societario, sia proprio un segnale di questa tendenza: dare al made in Italy un respiro globale e gambe più forti per correre sui mercati esteri, senza dimenticare che se si vogliono continuare ad avere delle straordinarie uova d’oro non bisogna ‘ammazzare la gallina’.
di Maria Cristina Alfieri