L’ennesima notizia che ha suscitato un acceso dibattito tra mondo agricolo e mondo industriale è arrivata pochi giorni fa da Bruxelles. Il fatto è ormai noto: la Commissione europea ha ricevuto un reclamo da una parte dell’industria italiana che sostiene di essere stata penalizzata da una legge che le vieta di utilizzare latte in polvere per realizzare prodotti lattiero-caseari. Parliamo di una norma che risale al 1974 e che, secondo i firmatari, costituirebbe un limite alla libera circolazione delle merci. In risposta al reclamo, avanzato lo scorso maggio, la Commissione ha scritto alle autorità italiane, chiedendo chiarimenti e avviando un’indagine. Il timore però, subito avanzato dal settore primario, è che la fine di questo divieto possa indurre la nostra industria lattiero-casearia, incalzata da una concorrenza più competitiva, ad abbassare il livello qualitativo della sua offerta, compromettendo la “reputazione del made in Italy” in giro per il mondo.
Pur sapendo che, come si legge nella nota della Commissione europea, “tutti i prodotti italiani protetti dagli schemi di qualità europei (Igp, Dop, Stg), tra cui per esempio la mozzarella Dop, non sono interessati dall’indagine (dal momento che la politica europea sulla qualità dei prodotti fornisce una specifica normativa per la loro produzione)”, ci si chiede più in generale quale immagine complessiva vogliamo trasmettere al mondo della nostra produzione. Perché la libera concorrenza deve essere direttamente contrapposta al pericolo di una caduta qualitativa?
Fa riflettere il fatto che gran parte delle battaglie per la ‘reputazione del made in Italy’ si debbano giocare in difesa. Anziché concentrare le forze sulla promozione di una qualità e trasparenza di filiera che non teme confronti, si sprecano quantità enormi di energia per difendere norme e posizioni che ci mettano al riparo da una concorrenza sleale. Il punto è che la miglior tutela alla nostra reputazione è proprio la qualità di ciò che facciamo, la nostra capacità innovativa, che pone i nostri prodotti al di sopra del mainstream della concorrenza. Lo dimostra il mercato americano che, per esempio, non riconosce le nostre denominazioni di origine controllata, ma solo il valore del marchio aziendale. Al di là di ogni norma esterna (che sicuramente può aiutare moltissimo e accelerare lo sviluppo) la scelta di competere su un mercato che è sempre più globale alzando costantemente (e non abbassando!) l’asticella della propria offerta è l’unica via percorribile per sostenere una concorrenza che sta imparando a fare bene (quasi) quanto noi. In una recente ricerca sui principali player dell’industria alimentare presenti in America, Antonio Cellie, amministratore delegato delle Fiere di Parma, ha evidenziato come negli ultimi anni siano cresciuti in quote e valore una gran quantità di player locali che, partendo da una materia prima di qualità, hanno iniziato a proporre prodotti con un ottimo rapporto qualità/prezzo. Se vogliamo che il nostro export passi da 33 a 50 miliardi di euro entro il 2020, siamo condannati a fare della qualità e dell’innovazione la nostra ossessione. Indipendentemente da qualsiasi norma e tutela, dovremo conquistare i buyer esteri spiazzandoli con la nostra creatività. La partita va giocata in attacco più che in difesa.
Soprattutto adesso che, per la prima volta, possiamo beneficiare di un supporto governativo concreto: un budget di 70 milioni di euro, di cui 44 destinati al mercato americano per promuovere sugli scaffali dei supermercati esteri l’autentico italian food con il claim ‘The Extraordinary Italian Taste’. I retailer degli stati di New York, California, Illinois e Texas sono stati sensibilizzati, a fronte di incentivi economici, ad acquistare il vero made in Italy e ad educare in tal senso i loro consumatori. Il terreno, adesso, non potrebbe essere più favorevole. Chi ha voglia di crescere dovrebbe approfittarne senza esitazioni. Perché se parte una campagna di sostegno ai nostri prodotti e i nostri prodotti non si fanno trovare a scaffale, l’effetto paradossale potrebbe essere quello di tirare l’ennesima volata all’Italian sounding. Contro il quale, di partite, ne abbiamo già perse fin troppe.
di Maria Cristina Alfieri