Tra la fine di un anno e l’inizio di quello nuovo gira sempre una quantità spaventosa di dati. Bilanci, analisi, previsioni, proiezioni. Ognuno tira le somme di ciò che è stato e prova a immaginare quello che verrà. Tra i tanti rapporti che mi capita di analizzare, leggo sempre con particolare piacere quello del Censis. Rispetto a tutti gli altri, ha una peculiarità che Giuseppe De Rita ha ben sottolineato durante la recente presentazione del Rapporto 2015: “Il nostro valore aggiunto è che, partendo dai dati, proviamo a ragionare sul lungo periodo – ha detto -, consapevoli che la cronaca ci uccide, creando una sorta di evaporazione della coscienza. La cronaca dà informazione, non conoscenza. La società non evolve per affanni quotidiani, ma per lunghi processi. Quindi noi tentiamo di capire i processi, non solo gli eventi”. Già questo punto meriterebbe una riflessione. È un invito implicito a cambiare lenti per leggere i dati, provando ad approfondire lo sguardo, non limitando l’attenzione al titolo di giornale, ma provando a immaginare che ogni numero sia come la punta d’iceberg di un cambiamento sociale che procede, profondo e sommerso, con lentezza poco ‘notiziabile’, ma con passo inesorabile. Per non farci trovare impreparati di fronte ai grandi cambiamenti sociali, bisogna cambiare visione. E che cosa ci dice sul futuro chi questo sguardo profondo lo esercita da oltre mezzo secolo? Intanto, per bocca di Massimiliano Valeri, direttore generale del Censis, ci conferma il ruolo pervasivo che il food è destinato a svolgere nella vita degli italiani. Un ruolo che sta rivoluzionando l’offerta e producendo delle vere e proprio metamorfosi urbane. Per rendercene conto basta osservare il ‘piano terra’ delle nostre grandi città: “Tra il 2009 e il 2015 – ha notato Valeri – si è registrato un calo dell’11% di librerie e negozi di abbigliamento, un -10,5% di negozi di calzature e un -9% di rivenditori di articoli sportivi. E da che cosa sono stati sostituiti? Da un +37% di negozi take away, +15,5% di ristoranti, +10% di bar, +8% di gelaterie e pasticcerie”. La ragione, oltre ovviamente al fatto che la soglia d’ingresso per entrare in attività legate all’horeca può essere anche molto bassa (cosa incentivante in un periodo in cui la propensione al rischio degli italiani resta ancora piuttosto bassa), va cercata proprio nella ‘fortissima attenzione sociale e culturale verso il cibo’ che ha non solo l’italiano medio ma, cosa ancora più interessante, il target emergente dei Millennials (a garanzia che il trend è destinato a durare negli anni). Secondo una ricerca realizzata sempre dal Censis su abitudini e gusti di questa nuova generazione di consumatori, gli attuali Millennials hanno un rapporto con il cibo che si traduce in molti fenomeni diversi, dal proliferare di blog e piattaforme web dedicate, alla nascita di star up nella ristorazione, al ritorno all’agricoltura. Sul fronte dei consumi il loro atteggiamento è di ‘andare per il mondo con i piedi ben piantati nella terra di provenienza’, ponendo una grande attenzione all’autenticità di ciò che mettono nel piatto, consapevoli che mangiare è prima di tutto un fatto culturale, una scelta etica, un’occasione relazionale.
“In concreto – si legge nel rapporto – il 60% degli under 35 italiani ritiene che l’eccellenza del proprio territorio si condensi nei prodotti alimentari locali a fronte del 47,5% della media nazionale. Non sorprende quindi che per il 26,9% dei Millennials (è il 17,9% il dato medio relativo a tutta la popolazione) il rapporto degli italiani con il cibo sia in primo luogo identitario, perché il nostro modo di mangiare ci rende orgogliosi”. Da qui anche l’investimento di tempo e di risorse economiche in attività legate alla cucina: tra i giovani italiani sono già 10,9 milioni quelli che dichiarano di cucinare, 3,4 milioni lo fanno con regolarità e 5 milioni lo fanno spesso. Tutto questo all’insegna di un originale ‘mixage’ tra radicamento identitario e sperimentazione del nuovo che porta i Millennials a gustare e apprezzare non solo i prodotti locali, ma anche la cucina etnica e il tipico di altri paesi, fatta salva l’attenzione alla qualità e sostenibilità delle materie prime.
Insomma, al di là dei deboli dati di ripresa dei consumi, per chi opera nel settore alimentare sono evidenti dei segnali ben più promettenti che, proiettati nel lungo periodo (come insegna il Censis) autorizzano le nostre imprese a essere ottimiste, a continuare a investire in innovazione e comunicazione, a spingere (talvolta anche senza ritorni immediati) gli investimenti sul web, che è il mezzo espressivo d’eccellenza dei Millennials. Teniamone conto in questo 2016.
di Maria Cristina Alfieri