Passano gli anni, si modifica il contesto, cambiano i protagonisti, ma il problema di fondo – che pesa come una palla al piede sulla maggior parte delle imprese italiane – resta sempre lo stesso: le dimensioni. Invariabilmente troppo piccole per consentire loro di competere sui mercati globali. È il dato che emerge con grande evidenza anche dall’inchiesta di copertina di questo mese, che abbiamo dedicato alla nuova stagione di fusioni e acquisizioni che sta caratterizzando il comparto agroalimentare italiano. Una stagione in cui gli attori principali parlano sempre più spesso una lingua che non è la nostra, mentre i protagonisti del made in Italy si accontentano di ruoli da comparsa. Piccolo è bello, in questo caso, suona stonato, anche se continua a essere la musica preferita di molti imprenditori nostrani, forse un po’ troppo orgogliosi della loro unicità e della loro storia per valutare ipotesi di alleanze e men che meno di cessioni a chi fa in patria il loro stesso mestiere e gli ha conteso il business fino a ieri. Il risultato è che si aprono le porte, anzi i portoni, ai competitor stranieri e si chiudono finanche le fessure a quelli locali, non si fa sistema e il Paese ci rimette. Partita persa, quindi? Non ancora. Non per Unioncamere, per esempio, che ha recentemente presentato un protocollo d’intesa con l’Alleanza delle cooperative italiane per dare il via a un progetto che potrebbe riservare delle belle sorprese. Si tratta di un accordo per “dare nuovo slancio alla competitività e all’efficienza gestionale dei sistemi d’impresa attraverso lo strumento delle reti: più reti d’impresa per crescere e per competere”. “Data la caratteristica del nostro sistema imprenditoriale, nella gran parte costituito da imprese di piccola dimensione – ha spiegato Ferruccio Dardanello, presidente di Unioncamere – l’aggregazione in rete rappresenta un passaggio fondamentale per poter operare con successo in uno scenario globalizzato (…) Stare in rete permette inoltre di catturare specializzazioni e competenze laddove esistono, all’occorrenza pure al di là del territorio di origine o del settore di appartenenza della singola piccola impresa. Una modalità importantissima per fare innovazione e utilizzarne gli esiti su scala dimensionale allargata”. E non si tratta di uno scenario per pochi: “ben 13mila piccole e medie imprese manifatturiere (da 20 a 499 dipendenti) – si legge nel rapporto Unioncamere 2011 – appartengono o sono in procinto di entrare in una delle diverse forme di reti d’impresa, finalizzate alla progettazione di innovazioni, di forme di commercializzazione e di nuove strategie di mercato. Ciò significa che la metà dei capitani che meglio rappresentano il made in Italy nel mondo hanno compreso che, per continuare ad alimentare la loro competitività, bisogna avere anche massa critica, e che dalla collaborazione nascono nuove idee, l’innovazione accelera e i costi fissi si riducono”. Non a caso Confindustria si sta prodigando per informare le aziende su tutti i vantaggi, anche economici, che la messa in rete porta con sé. Lo scorso gennaio è arrivato il via libera della Commissione europea alle agevolazioni fiscali italiane previste proprio per incentivare le aggregazioni di pmi: un plafond totale di 48 milioni di euro, di cui 20 per il 2011, 14 per il 2012 e altrettanti per il 2013. Grazie a questa misura, le aziende italiane potranno imboccare una corsia preferenziale per sviluppare attività oltreconfine o richiedere finanziamenti bancari non più singolarmente, ma come aggregazione: un’agevolazione non da poco per crescere in dimensioni e competitività. D’altra parte, che le aggregazioni virtuose portino a casa risultati economici migliori è una lezione che ci arriva anche dal mondo agricolo: in occasione della recentissima presentazione del rapporto dell’Osservatorio della cooperazione agricola italiana, è emerso chiaramente come il settore abbia subìto, nel periodo di crisi, una contrazione inferiore a quella registrata da altri comparti produttivi, difendendo i posti di lavoro. “I dati mostrano una capacità di tenuta delle posizioni acquisite dalla cooperazione associata relativamente migliore rispetto al sistema alimentare non cooperativo; un posizionamento che deriva dalla mission delle imprese, fortemente orientate a valorizzare la materia prima dei soci anche in momenti in cui i mercati presentano segnali di rallentamento”, ha commentato Maurizio Gardini, presidente di Fedagri-Confcooperative. Da qui l’idea di rafforzare le partnership già in essere, lanciando il progetto “cooperative-locomotiva” nell’ottica di ridurre il gap di sviluppo tra Nord e Sud. “Non possiamo permetterci di lasciare indietro nel processo di sviluppo del Paese una parte importante come il Mezzogiorno – ha aggiunto Giovanni Luppi, presidente di Legacoop-Agroalimentare –: senza il Sud ogni anno si perderebbero 15,8 miliardi di euro, ovvero la cifra pari al valore di produzione agricola dell’area. Il nostro obiettivo è quello di individuare delle imprese cooperative leader nelle filiere più importanti, che avranno la funzione di costituire le locomotive attorno alle quali creare dei sistemi integrati con le cooperative del Sud disponibili e pronte per la sfida del mercato, in modo da ampliare la gamma di offerta ai canali distributivi”. Chapeau. Maria Cristina Alfieri
L’unione fa il business
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