L’Italia riuscirà ad arrivare a 50 miliardi di euro di export agroalimentare entro il 2020? Nel 2017 sono stati raggiunti 41 miliardi di euro (+7% sul 2016), ma i 50 miliardi restano un target importante che renderebbe giustizia ad un’industria che per il sistema produttivo italiano significa molto, dato che si tratta del secondo comparto dopo la meccanica. E che produce generalmente con qualità, genuinità e garanzia, tutte doti di cui si stanno accorgendo i tanti consumatori esteri che si avvicinano ai nostri prodotti e alla nostra tradizione culinaria. Ma qual è la strada corretta per incrementare la crescita? Quali i mercati più promettenti e le sfide a congiuntura internazionale è ancora favorevole? Quali sono le esperienze vincenti alle quali le nostre imprese dovrebbero ispirarsi per impostare dei piani di internazionalizzazione?
Il ruolo dell’export
Di tutte queste cose si è discusso in occasione dell’ultima edizione del Food Summit, organizzato da Food al Teatro Regio di Parma in occasione dell’apertura dell’edizione 2018 di Cibus, la maggiore fiera del settore in Italia. Perché produrre qualità non si traduce automaticamente in maggiori vendite fuori dai nostri confini, come ben sanno le tante imprese attive nel settore. La concorrenza di altri Paesi, al contrario, è sempre più forte e non è semplice trovare gli spazi commerciali giusti anche in presenza di un’espansione del trading internazionale, ma l’Italia riesce ancora a difendersi bene. Se, da un lato, i pur buoni risultati italiani degli ultimi anni sono stati inferiori a quelli di altri Paesi esportatori di prodotti alimentari, tanto che più volte l’Ice ha sottolineato che la nostra quota di commercio internazionale food & beverage si è leggermente contratta, è vero che a questa evidenza si giunge perché altri stati hanno un’incidenza maggiore della nostra di export di materie prime alimentari, che prendono la strada dei grandi mercati anche emergenti come la Cina, per esempio.
Ma se si considerano solo gli alimenti trasformati o comunque pronti per il consumo finale il Belpaese ha avuto una crescita superiore a quella di Germania e Francia nel periodo pari al 31% secondo le rilevazioni della società di consulenza AlixPartners che ha elaborato dati Ulisse. Nello stesso periodo l’export francese è salito del 12% e quello tedesco del 21 per cento. Ha fatto meglio di noi solo la Spagna, tra i grandi mercati di produzione, con un 43% di crescita, ma con un valore assoluto più basso di quello italiano (Francia e Germania hanno valori assoluti più alti, al contrario).
La terra promessa dell’export
Il punto di partenza della discussione andata in scena al Food Summit – intitolato “Road to 2020” – è stata la considerazione che alla domanda “dove esportare”, le imprese italiane sembrano aver dato una risposta abbastanza precisa negli ultimi anni: sono gli Stati Uniti la nostra terra promessa il mercato più dinamico anche se il primo si conferma la Germania. Abbiamo superato i 4 miliardi di esportazioni agroalimentari e l’appetito vien mangiando. Gli Stati Uniti sono un mercato ancora molto ricco di opportunità per le aziende alimentari italiane – spiega Marco Eccheli Director di AlixPartners –, ma anche il Canada, fresco di accordo Ceta, nonché il Messico sono da seguire attentamente. Le nostre esportazioni in Usa sono ancora molto concentrate territorialmente e merceologicamente. I volumi si concentrano in tre stati: New York, California e New Jersey, mentre ci sono aree dove si potrebbe crescere bene, sulla scia di una maggiore conoscenza dei nostri prodotti. Penso a stati come Texas, Illinois, Florida, Pennsylvania, Massachusetts, che hanno un Prodotto interno lordo elevato e dove noi esportiamo ancora poco in relazione alla potenzialità.
Strategie di crescita
Non solo, ci sono da approcciare anche le aree più periferiche degli Usa, perché anche negli Stati più piccoli non mancano gli spazi, ma è forse necessario andare per gradi. Per consolidare la nostra posizione sembrano essere sempre più necessari alcuni passaggi, come il presidio diretto in loco con una filiale per le aziende, che potrebbe essere consorziata nel caso delle imprese medio piccole, e una presenza corposa governativa per assecondare tutte le attività di promozione del made in Italy a tavola. Tutte azioni di cui si parla da tempo e che appaiono sempre più importanti contando che il numero di prodotti esportabili è cresciuto per la fine di alcuni divieti imposti dal Dipartimento dell’Agricoltura, come nel caso di molte varietà di salumi, per esempio.
Leggi l’intera inchiesta sul numero di giugno 2018 di Food.