Novanta miliardi di euro, con un crescita del 70% negli ultimi dieci anni; è questo il volume globale del giro d’affari raggiunto dal fenomeno dell’Italian sounding. Un triste primato che corre ancora più veloce dell’export agroalimentare Made in Italy autentico, pure in crescita. A rendere note le cifre è Assocamerestero, presentando i dati dell’Indagine 2018 sull’Italian sounding (con focus in Europa e Nord America), che si inserisce nell’ambito del progetto ‘True Italian Taste’, promosso e finanziato dal Ministero dello Sviluppo Economico.
BATTERE L’ITALIAN SOUNDING CON LA CULTURA
“In alcune realtà e per certi prodotti, la scelta dell’Italian sounding rispetto all’originale italiano non è legata a questioni di costo, ma piuttosto a due fattori: la difficoltà di reperimento del prodotto autentico e la scarsa conoscenza da parte del consumatore straniero delle caratteristiche e della qualità del vero Made in Italy – sottolinea Gian Domenico Auricchio, presidente di Assocamerestero. Con il Progetto True Italian Taste stiamo lavorando per far sì che la scelta del prodotto autentico passi attraverso l’esperienza della sua eccellenza, coinvolgendo oltre 500mila operatori del food e food lovers dei mercati di primo riferimento per il nostro export. Solo con la cultura e l’educazione al consumo potremo arginare il fenomeno e recuperare le quote erose al nostro agroalimentare”.
I SETTORI PIÙ COLPITI E L’INDICE DEI COSTI
Dall’indagine emerge che la categoria più colpita dall’Italian sounding, per le due aree interessate, è il confectionery: il 42% dei prodotti imitati sono piatti pronti e surgelati, conserve e condimenti. Seguono i latticini (25,1%), la pasta (16,1%), i prodotti a base di carne (13,2%) e i prodotti da forno (3,6%). Per valutare gli impatti economici del fenomeno, invece, è stato elaborato un indice dei costi, che misura quanto i prezzi dei prodotti Italian sounding si discostino da quelli corrispondenti del made in Italy autentico: gli abbattimenti di costo più consistenti si registrano nel Regno Unito (- 69%) e in Germania (- 68,5%), seguiti dal Belgio (-64,9%) e dall’Olanda (- 64,3%); ci si muove su tassi di risparmio più contenuti in Svizzera (- 33,9%) e in Lussemburgo (- 25%).