“Sono oltre trent’anni che il Paese non è governato: accorgersi ora che abbiamo 5mila letti in terapia intensiva contro i 26mila della Germania, scoprire che le carceri sono in subbuglio e che è possibile salire sui tetti e fuggire dalla porta d’ingresso, è il conto che stiamo pagando per essere stati distratti, per non aver preteso una guida vera. Per non parlare del debito pubblico: un macigno che si farà ancora più pesante per sopperire alle difficoltà economiche di questi mesi. Oltre a tutte le ingiustizie sociali che ci sono, le nostre società oggi sono troppo opulente, tutti sono invitati a un consumo frenetico, con spreco e scarto di beni e di alimenti acquistati che finiscono nelle discariche come mai si era visto nella storia, e con stili di vita che hanno portato a un inquinamento della terra che fa soffrire tutti. Ritornare ai livelli precedenti l’epidemia a me pare non solo impossibile, ma addirittura molto pericoloso” così commenta la situazione attuale il filosofo Umberto Galimberti, opinionista da molti anni della nostra rivista Food.
Ma facciamo un passo indietro e cerchiamo di riflettere su qual è stata la politica industriale in Italia. Da oltre cinquant’anni è stato scelto di investire in settori ad alta occupazione di personale. Una scelta, questa, presa da pochi grandi industriali, approvata dai sindacati e dai politici. I settori prioritari sono stati: auto, siderurgia, banche, poste, trasporto aereo, chimica. Ingenti contributi pubblici miliardari (in euro) sono stati trasferiti negli anni per sostenere alcune industrie di questi settori. Con due eccezioni: Eni ed Enel, due storie di successo. Mentre altre, come quelle degli elettrodomestici, di elettronica, informatica e telecomunicazioni, sono state azzerate soprattutto per mancanza di investimenti e perché assorbivano pochi operai e impiegati. Anche la medicina privata è stata preferita a quella pubblica. E i disastri di oggi ne sono la conseguenza. Diverse multinazionali straniere poi, operanti anche nei beni di largo consumo, grazie ai forti contributi pubblici ricevuti, hanno acquisito brand e fabbriche negli anni Ottanta. Adesso si tengono i brand e dismettono le fabbriche. Mentre molte aziende italiane del food sono cresciute grazie alle capacità di imprenditori coraggiosi e lungimiranti che, insieme ai loro manager e collaboratori, hanno conquistato spazi importanti sui mercati internazionali. Anche quelle in crisi poi sono state vendute bene e oggi prosperano.
Ricordo un investimento pubblico rilevante nella Sme, al cui interno vennero accorpate diverse società in crisi come Alemagna, Motta, Cirio, Bertolli, De Rica, Autogrill, Gs e altre ancora. La Sme poi fu venduta, per 497 miliardi di lire, a Carlo De Benedetti, con trattativa negoziata con Prodi, allora presidente Iri. In un secondo tempo la vendita venne annullata dal governo Craxi e poi venne fatto uno spezzatino. Nelle casse pubbliche entrarono 2.500 miliardi di lire e le società furono vendute a Nestlé, alle cooperative bianche, all’Ifil, a una cordata capitanata da Benetton e ad altre società.
Molte sono poi le industrie, le catene della Gdo e della ristorazione che si sono sviluppate grazie alla crescita interna e alle acquisizioni. Mentre Ferrero, Lavazza, Campari, Bolton, San Benedetto e Rana sono state le imprese più attive all’estero. Sul fronte distributivo Oscar Farinetti ha fatto da apripista, aprendo diversi Eataly in giro per il mondo e aiutando a far conoscere molti prodotti di aziende di marca di grandi e piccole dimensioni. Questo modello di sviluppo è sufficiente? No, i piani di sviluppo e quelli industriali vanno rivisti. Anche le strategie sui prodotti e sulla loro sostenibilità non sono più attuali e vanno adeguate, per non dire ridisegnate, per far fronte alle nuove esigenze dei consumatori e alle nuove modalità di consumo e di vendita.
Sono molti i politici che sostengono la tesi che bisogna investire in un nuovo modello di sviluppo. Sì, ma quale? È fondamentale non commettere gli errori del passato come mettere in piedi un ‘Iri 2’, con dentro Alitalia, ex Ilva e altre imprese decotte. “Errare è umano, ma perseverare è diabolico” sosteneva Seneca. Meglio venderle, queste società, ma senza spostare i dipendenti in aziende pubbliche, come è stato fatto nel passato. Se non si riuscirà, meglio chiuderle. Oggi la garanzia di mantenere in vita società decotte non è più possibile darla. Anche il posto fisso, lo stipendio fisso e garantito, è una chimera per tutti. D’altronde c’è anche da chiedersi il motivo per il quale diverse multinazionali non considerano più un plus avere fabbriche in Italia. Il costo giornaliero, in dollari, di un operaio in Italia è pari a 34,15 contro quello di un operaio in Slovacchia che è 11.24, in Polonia 8.01, a Taiwan 7.70, in Romania 6.90, in Malesia 2.50, nelle Filippine 1.90 e all’interno della Cina e in altri Paesi sotto 1 dollaro all’ora. Considerando poi i giorni lavorati in un anno e la produttività media, è chiaro che non si può giocare la partita sul costo del lavoro in un mercato globale.
Anche se per essere competitivi sui mercati globali il tema dei costi è fondamentale, va considerato che l’incidenza sul costo del personale per unità di prodotto nel settore food è molto inferiore rispetto a quella di altri settori. Indispensabile poi è ridurre le tasse sul lavoro per ridurre la disoccupazione giovanile. In Italia però occorre spostare l’obiettivo sui nuovi mestieri. E per quelli tradizionali puntare sulla specializzazione e sulla rivoluzione digitale. D’altronde è da anni che la forza lavoro nelle fabbriche si ottiene coinvolgendo cooperative, artigiani e professionisti e sempre meno assumendo dipendenti diretti.
In Italia, ma possiamo dire in quasi tutta l’Europa, siamo troppo ancorati al passato, siamo troppo conservatori. In mano a lobbisti che esercitano condizionamenti per mantenere il potere, lo status quo. Per non parlare del sud Italia, ma non solo lì, dove le mafie imperano e gestiscono attività in nero, spesso con l’appoggio di politici locali per governare il territorio. Dobbiamo attuare processi di liberalizzazione dei servizi e deregolamentazione del mercato del lavoro, considerando i giovani come una risorsa da impiegare e non disoccupati da assistere.
Altri problemi da risolvere sono l’eliminazione dei paradisi fiscali e il ‘transfer price’, la possibilità di avere certezza del diritto, la lotta alla concorrenza sleale e alle truffe, ai monopoli e alla burocrazia. Anche i sindacati devono fare la loro parte, non essere ancorati a ideologie del passato. Il mondo è cambiato e cambierà ancora. I mercati globali sono una grande risorsa per le nostre imprese. Esportando stili di vita, di consumo e, di conseguenza, prodotti alimentari, che sono i migliori del mondo. Come modello di sviluppo investiamo nel turismo e nella cultura, due risorse strategiche. Ricordo che l’Italia fu scoperta dagli stranieri leggendo il libro di Goethe ‘Viaggio in Italia’, scritto 200 anni fa. Subito dopo iniziarono i viaggi del ‘gran tour’ per conoscere il nostro patrimonio artistico e assaggiare i nostri prodotti alimentari. Se i turisti, per alcuni anni, non verranno a visitare il Bel Paese, mandiamo le nostre specialità ai consumatori di tutto il mondo . Attraverso non solo le catene internazionali, ma anche direttamente a casa, per alcune categorie. Insomma dobbiamo puntare sul settore food che è anticiclico perché tutti i giorni dobbiamo mangiare, meglio se cibi buoni e di qualità.
La conferma è arrivata in questo mese di letargo obbligato, quando i consumi di farina, di uova e di altri ingredienti hanno registrato forti incrementi, così come anche quelli di molti prodotti trasformati. Un settore industriale strategico, l’alimentare, che può diventare il primo del Paese in tutte le classifiche, mentre oggi lo è ‘solo’ per il fatturato. Molto più importante e strategico di quello meccanico, automobilistico o siderurgico. Semplicemente perché produce beni di prima necessità. In Europa, l’alimentare (cibo e bevande) è la prima industria manifatturiera in termini di fatturato (1.109€ miliardi nel 2016), valore aggiunto (230€ miliardi nel 2015, il 2.1% del valore aggiunto lordo europeo) e occupazione (4.57€ milioni, circa il 15% degli occupati nel manifatturiero europeo), come evidenziato nel report 2018 dell’associazione FoodDrinkEurope. Si tratta di un’industria che conta, in Europa, 294.000 imprese e che nel tempo si è rivelata stabile, robusta e resiliente. Secondo gli ultimi dati Istat relativi al 2016, l’industria alimentare in Italia è seconda, per numero di imprese (56.750 di cui 53.360 nel cibo e 3.390 nelle bevande), solo al settore dei prodotti in metallo. Il numero di imprese è rimasto quasi invariato negli anni. Ma l’alimentare è il primo settore manifatturiero del Bel Paese con un fatturato globale, pari a 133€ miliardi nel 2016, 137 nel 2018 e 140 nel 2018, secondo Federalimentare. Nel contesto europeo, l’industria alimentare italiana si inquadra come secondo player, dopo la Francia, per numero di imprese, terzo (dopo Francia e Germania) per numero di occupati e quinto (dopo Francia, Germania, Regno Unito e Spagna) per valore aggiunto generato.
In Italia, contrariamente a quello che è avvenuto negli altri Paesi europei, non è mai stata fatta una politica di settore nell’alimentare. Con grandi responsabilità della politica, ma anche degli industriali e delle loro associazioni di categoria.
La conclusione la lasciamo a Guido Barilla, presidente del gruppo famigliare che porta il suo nome, che è stato intervistato da Andrea Pontremoli, Amministratore Delegato Dallara, per gli studenti di un master presso l’università di Bologna. Ha dichiarato Barilla: ”Oggi ci poniamo molte domande, non ci sono più certezze. Dobbiamo continuare a valorizzare il nostro patrimonio, rappresentato da tutti gli attori della filiera. Come Paese abbiamo un valore straordinario: le nostre persone, con le loro competenze, dedizione e passione nel fare le cose. Come imprenditori dobbiamo esistere, continuare a partecipare, a sostenere la qualità, la bontà, la salute, l’onestà. Trasmettere qualcosa che sia sempre migliore a quello che abbiamo fatto prima. Fare grande impresa non è un lavoro da scienziati, è una disciplina fatta da continuità e passione. La grande soddisfazione è la ripetitività delle cose che facciamo bene e sempre meglio. Io penso che le aziende si accorgeranno che questa crisi globale necessita di risposte che possono dare solo i giovani. Grazie alle loro conoscenze tecnologiche, alla connettività e all’interdipendenza. Le aziende avranno bisogno di giovani che conoscono i nuovi linguaggi. Nel momento della tragedia e della paura ognuno pensa a salvarsi, ma appena dopo, nel momento della ricostruzione, c’è bisogno di unione per raggiungere insieme gli obiettivi, perché da soli non si fa niente. Una nuova generazione di giovani entrerà nelle imprese perché avremo bisogno di nuovi modi di pensare e nuovi linguaggi.”
La lezione di Guido Barilla, laureato in filosofia, è un messaggio per tutti gli imprenditori. E speriamo anche che arrivi ai politici per costruire insieme un nuovo modello di sviluppo.