I numeri ora non permettono illusioni. Secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale, l’economia italiana rientrerà tra le più deboli al mondo. Al netto dei correttivi nel 2020, la decrescita del Pil italiano si attesterà intorno al -9,1% (quint’ultimi su 149 Paesi). Peggio dell’Italia, su scala globale, si attesteranno solo la Grecia (-10%), il Libano (-12%), il Venezuela (-15%) e Macao (-29,6). La Gran Bretagna registrerà -6.5% mentre in Europa la Germania -7%, la Francia -7.2% e la Spagna -8%. Secondo le stime sviluppate da Svimez, un mese di lockdown comporta la riduzione di quasi 48 miliardi di euro del Pil italiano, pari al 3,1% del totale.
Di fronte a questo scenario, si parla di interventi economici anticiclici, anche grazie alle risorse liberate da Ue e Bce, di investimenti pubblici e privati in infrastrutture fisiche e tecnologiche. E di sostegno a famiglie e imprese.
Purtroppo però, si sente troppa retorica in giro, a cominciare dalle lunghe conferenze stampa del nostro Presidente del Consiglio, oltre che dalle numerose pagine a pagamento sui nostri quotidiani pieni di tirate autocelebrative: andrà tutto bene, ce la faremo… Dal mio punto di vista non è affatto scontato che andrà tutto bene. Perché vada tutto bene dobbiamo parlare di meno e fare di più.
GLI INTERVENTI URGENTI
Per quanto riguarda le imprese, è necessario intervenire ora. Gli imprenditori vogliono rimettere in moto la macchina il più velocemente possibile. È giusto, perché far ripartire la vita delle aziende oggi è il solo modo per salvaguardarne il futuro e il lavoro ad esso collegato. Maurizio Landini, Segretario della CGIL, sostiene che le aziende stiano premendo per riaprire perché vogliono difendere i loro profitti. Non credo che questo sia il punto – nonostante l’obiettivo sia legittimo e al tempo stesso oggi difficile da realizzare – ma quello invece di tenere in vita l’economia del Paese. Se l’azienda muore, muore anche il lavoro. Quindi bisogna intervenire. Oggi il Paese è diviso in due. La maggioranza della popolazione (circa il 65%) è, a vario titolo e per il momento, ascrivibile ai garantiti (pensionati, dipendenti pubblici, lavoratori di aziende aperte…), l’altra parte (circa il 35%) appartiene a chi questa crisi la sta subendo in pieno (liberi professionisti, piccoli imprenditori, popolo delle partite Iva, baristi, ristoratori, barbieri, parrucchieri, tassisti…) e senza sconti. Non bisogna essere preveggenti per capire che, se l’economia non si riprende, questo 65% è destinato acomprimersi ulteriormente. I primi a perdere gli ammortizzatori sociali e a passare tra i non garantiti saranno le persone oggi in cassa integrazione, che vedranno le loro aziende fallire. Le risorse impiegate dallo Stato, per quanto straordinarie, non basteranno mai per tutto e per tutti. È necessario definire una strategia e fare ora delle scelte.
Tra le centinaia di migliaia di posti a rischio possiamo citare il personale stagionale degli hotel, i lavoratori di bar, pizzerie e ristoranti, gli operatori della filiera Horeca, gli addetti degli stabilimenti balneari, gli agenti di viaggio e i tour operator, i lavoratori dei parchi a tema, le guide turistiche, e via di seguito. Ci sono tra questi anche i commercianti e gli artigiani. A queste persone che stanno perdendo mesi di lavoro, è fondamentale elargire finanziamenti a fondo perduto, dal momento in cui gli incassi persi in questi mesi non verranno mai recuperati, ma almeno i bar o i ristoranti potranno sopravvivere.
E magari andrebbe risolta qualche ambiguità: in un autobus di 40 metri quadrati sono autorizzate a viaggiare 16 persone, mentre in un bar si può entrare uno per volta. A volte è la mancanza di logica che sembra prevalere, aumentando il rischio di incomprensioni e di forti malcontenti. Le aziende invece dovrebbero ricevere prestiti a lunga portata a tasso zero, e soprattutto essere agevolate con l’eliminazione di quella parte eccessiva di burocrazia e di controlli che rendono interminabili le gare d’appalto. A loro serve uno Stato che non metta i bastoni fra le ruote e che, oltre ad aiutarle finanziariamente, faciliti il lavoro in regola e disincentivi quello in nero.
GLI STAGIONALI
Un altro problema di questi giorni è quello della frutta che sta deperendo sugli alberi perché mancano i lavoratori stagionali che vengono dall’estero, ora bloccati alle frontiere per le misure cautelative. Già a metà marzo Coldiretti aveva denunciato che in questo modo si trova a rischio più di un quarto del made in Italy che solitamente viene raccolto nelle campagne da 370mila lavoratori stranieri regolari in arrivo ogni anno. Per questo motivo, sarebbe utile introdurre il voucher agricolo semplificato, che possa consentire a studenti e pensionati italiani di partecipare ai lavori di raccolta. In questo momento servono soluzioni pratiche, veloci ed efficaci. Chi si mette di traverso a queste soluzioni, in realtà non vuole risolvere il problema. Ma è il Governo che deve decidere. Lo stesso vale per i voucher alle babysitter: se le scuole chiudono e le persone devono tornare al lavoro, chi può tenere i bambini? E se qualcuno li tiene, come si possono pagare queste persone? In nero? Questo è il problema: no al voucher, sì al nero. È evidente che sia necessario del pragmatismo.
MENO REGOLE, PIù LAVORO
Ovviamente ci sono altri ambiti in cui servono facilitazioni. Servono deroghe sui contratti di lavoro tipo quelli che nella Gdo consentono la partenza di nuovi insediamenti per un periodo congruo, con lo scopo di salvaguardare massimamente l’occupazione. Servono sistemi incentivanti, flessibili e defiscalizzati all’interno di un contesto collaborativo, cosa che peraltro in questi mesi si è dimostrata possibile. Serve rimettere in moto il sistema economico e sociale. Nonostante ciò, si sente dire dal sindacato che è assolutamente necessario normare il lavoro in smart working. Io credo invece che in primo luogo sia necessario ricostruire il Paese rimboccandosi le maniche, perché questo non è il momento delle regole, ma quello del lavoro. E della collaborazione.
Per esempio, le associazioni, in particolare quella della Gdo, non si sono fatte sentire sul discorso delle mascherine e del prezzo imposto. La Confcommercio ha riportato il tema delle aperture domenicali al centro del dibattito, in una fase in cui a breve si assisterà alla decimazione di posti di lavoro. Credo sia scorretto in questa fase aumentare la frammentazione e le lotte di bottega.
Alla retorica imperante del “ce la faremo” e “andrà tutto bene” e alle pacche sulle spalle a chi non si è tirato indietro rischiando in proprio, è necessario facciano seguito delle misure concrete. Occorre coraggio, non possiamo permetterci di aspettare che il virus scompaia, né che tutte le regioni raggiungano lo stesso livello di ‘salute’ per ripartire. L’Italia del dopoguerra è rinata con il lavoro. Non si vuole che si usi la parola guerra. E perché no? Perché questa parola presuppone la necessità di prendere decisioni forti, calcolando anche che ci potranno essere dei rischi conseguenti. Con la riapertura, la gente ricomincia a lavorare in presenza di una malattia che non è ancora debellata. Per i giovani la mortalità è meno dell’1%, ma i rischi ci sono lo stesso, perché il rischio zero non esisterà mai.